La moda di oggi ha un problema di reference? In un presente incerto, l’industria guarda al passato
«Sì, ma dov’è la storia?» è stata la domanda più frequente che si è sentita nel corso del fashion month. Ci sono state anche variazioni: «Qual è lo storytelling?», «Chi è il cliente?» e, non in forma di domanda, «Non ho visto il brand» e via dicendo. In quest'ultimo fashion month il discorso sull'identità del brand, su cosa la costituisca e sulla plausibilità delle nuove direzioni creative è stato centrale. Demna, ad esempio, è riuscito con successo a indovinare l'identità di Gucci anche se per molti il "vero" Gucci era quello di Alessandro Michele per una questione d'abitudine: il suo predecessore non c'era riuscito proprio per un'assenza di narrativa. L'identità dunque esiste ma trovarla equivale a indovinarla, anticipando le aspettative del pubblico. Definirla è impossibile. Ma stabilire una nuova identità non è facile e nel corso del mese è emerso un chiaro pattern di derivatività e somiglianze tra un brand e l’altro che, per attenuare, sono state mascherate da un forte ricorso alla reference come simbolo di storia, segno di continuità e affermazione di identità in un momento in cui tutti copiano tutti.
«Parte un trend e lo ri trovi in tutti i brand, cambia solo il logo che ci appiccicano sopra», ci ha detto la persona dietro la pagina anonima @insidethemood. «In questo particolare momento storico», ha proseguito, «i brand hanno perso la bussola e dimenticato come raccontarsi». Cambi di direttore creativo, collezioni di passerella ricche di citazioni per cui però «in showroom la declinazione commerciale è del tutto diversa», costanti necessità di reinventarsi e le pressioni di una tribuna social a dir poco feroce hanno sgretolato ogni forma di riconoscibilità. Per stabilire meglio i connotati dell’identità di ciascuna casa, dunque, i rispettivi direttori creativi hanno fatto larghissimo ricorso alle cosiddette “reference”, ovvero capi e design ripescati dall’archivio. La loro importanza è stata largamente esagerata dall’infosfera della moda, al punto che la dichiarazione di Duran Lantik di non avere nemmeno aperto gli archivi di Gaultier è suonata quasi coraggiosa. La sua provocazione ci ha spinto però a domandarci: saremo forse diventati dipendenti dagli archivi?
Perché molti brand sembrano uguali tra loro?
Prima di parlare delle reference, servirebbe parlare delle imitazioni. Senza dubbio, in questo periodo, le designer più copiate sono Miuccia Prada e Phoebe Philo. Miu Miu in primis e poi anche Prada sono diventati in questi anni precursori e creatori di trend e in effetti un numero sempre maggiore di brand si è posto nella loro scia. Anche quelli che di “copiare” non avrebbero bisogno. In presenza di blazer croppati e orli di mutande logati a vista, in effetti, non si può non pensare a Miu Miu. E lo stesso vale per elementi come voluminosi top scultorei abbinati a gonne in trasparenza; a micro-giacchette con pantaloni sartoriali e una grossa cintura; ai vestiti incrostati di cristalli e ai capospalla anni ’60 stile Susanna Agnelli. Lo stesso valga per i molti sifonamenti fatto all’archivio di Prada, tra citazioni al minimalismo anni ‘90 e abbinamenti ugly-chic.
Interesting how Phoebe Philo is shaping the modern fashion world through her protégés:
— Las lentejuelas (@lentejuelassv) October 2, 2024
Matthew Blazy at Bottega
Daniel Lee at Burberry
Adrián Appiolaza at Moschino
Peter Do at Helmut Lang and his namesake brand
Nadège Vanhée-Cybulski at Hermès
Now Michael Rider back at Céline
Lo stesso vale per Phoebe Philo. La designer inglese ha fatto bene ad aprire un suo brand più o meno in disparte dalla moda, un po’ come le Olsen di The Row, perché letteralmente ogni brand che vuole vendere alle donne sofisticate di questo mondo (da Givenchy a Stella McCartney, da Sacai a Schiaparelli, da Calvin Klein a Khaite) sta depredando i suoi archivi come se non ci fosse un domani. Abiti decostruiti, volumi modernisti, pop di colore affidati ad accessori materici, drappeggi astratti. Il tutto ovviamente in severe palette di grigi, bianchi, neri. Oggi come oggi, certi capi oversize in colori tenui un po’ cascanti, ma formali, adatti per il vernissage ma non per l’ufficio, potrebbero appartenere a una decina di brand diversi tutti indistinguibili tra loro. Il talento di Phoebe Philo è anche retroattivo: sia Chloé che Celine hanno di recente rimesso in produzione la Paddington e la Luggage stimolando non di poco le vendite.
Questo problema delle imitazioni è dovuto a molteplici fattori. Gli executive, in primo luogo, inseguono le vendite in modo spesso cieco e istintivo e, dunque, se Miu Miu o The Row vendono serve copiare proprio loro e nel modo più ovvio e smaccato – non avremmo avuto l’invasione di flat sneakers prima e delle boat shoes dopo. Negli uffici stile, poi, si sono esaurite le maniere di fare giacche, maglioni, abiti e camicie: dopo tutto è impossibile reinventare la ruota. Inoltre, secondo @insidethemood, «per come sta andando veloce la moda, per come i ritmi sono diventati forsennati, è difficile per i designer concentrarsi e produrre una narrativa originale». In questo contesto è emerso il valore dell’archivio e delle reference: significatori di storia come surrogati di identità.
Il problema delle reference
Per @insidethemood trovare le reference nelle collezioni «è diventato un po’ lo sport nazionale» degli insider. «Data la velocità con cui vengono fatte, presentate e digerite le collezioni, le reference sono diventate una coperta di Linus per i designer, per sentirsi sicuri», spiega la voce anonima dietro l’account. «Sicuramente è una coperta un po’ corta». Una reference in effetti è un po’ come una cambiale: promette un valore ma non è valuta corrente. E quella delle reference nei brand storici è una gigantesca bolla speculativa in attesa di esplodere. In un mondo dove i brand devono produrre e vendere abiti basici, ricercare negli archivi un principio di autorità e continuità è divenuto un rito. E infatti negli ultimi tempi tutti i designer prossimi al debutto descrivono la loro meraviglia nel discendere nell’archivio, nello scoprire questa bellezza e nel riproporre pezzi heritage che però non sono frutto di idee nuove.
Un altro problema relativo alle reference è stato enunciato con grande precisione dalla designer argentina Sofia Abadi che ha scritto così su Twitter: «La moda è bloccata perché, avendo accesso illimitato alle immagini, continuiamo a fare riferimento al passato in senso letterale. Realizziamo abiti ispirati ad altri abiti, cercando idee per la moda all'interno della moda stessa. Un tempo i designer avevano un'ossessione esterna e utilizzavano la moda per raccontarcela». Un tema riecheggiato anche da @insidethemood per cui «i designer dovrebbero prendere le reference dell’archivio ma dovrebbero comunque filtrarle attraverso le proprie reference: il loro vissuto, il loro retroterra culturale, i film che amano, l’arte. E rendere tutto fruibile per il pubblico moderno». Una reference è come una barzelletta: se bisogna spiegarla non funziona.
Per @insidethemood, però, questa ricerca non serve a «confortare il pubblico» tramite segnali di continuità stilistica. «Secondo me più che il pubblico è confortato il designer dall’infilare una reference», dice. «Possono dire di aver fatto quello che c’era nell’archivio e sentirsi tranquilli». Un nascondino intellettuale rinforzato anche dalla stampa. Sempre più articoli sostituiscono alla critica ponderata il riepilogo delle reference di uno show. Il pubblico a quanto pare ne ha fame: secondo il gestore della pagina i post «con la reference più “bassa”» hanno maggior riscontro sul pubblico anche se «quelli che amo di più fare sono quelli dove all’interno del brand trovo riferimenti a mondi esterni alla moda».
All these dior "references" tweets are killing me https://t.co/FVxzXkYT0u
— Chungmuro Rose (@chungmuro_rose) October 1, 2025
Il risultato è quello di creare inutili deformazioni attraverso citazioni decontestualizzate. Un certo look del Dior di Jonathan Anderson aveva il volto coperto da un elemento in pizzo: dettaglio bizzarro se non si sa che lo stesso elemento era in una collezione di Haute Couture che Yves Saint Laurent creò per Dior quasi un secolo fa. Da Saint Laurent invece molti degli outfit più a sbuffo citavano una collezione che, negli anni ’70, il founder aveva creato ispirandosi al Ballo di Proust, cioè un’elegante festa in maschera che i baroni Rothschild avevano dato travestendosi da signori del primo ‘900. Nessuno si è chiesto quale fosse l’attinenza di questa citazione col presente, perché fosse stata scelta per questa collezione e non la prossima. Due look dell’ultima di Blumarine erano quasi fotocopie di un look del Givenchy di Tisci e di un altro di Rahul Mishra, due designer estremamente diversi tra loro. Per non parlare di come Matières Fécales e Dilara Findikoglu, seppur bravi, dipendono in grandissima parte da Alexander McQueen senza però possederne la tecnica: belle idee ma di seconda mano.
L’elenco può andare avanti. Le piume su uno dei look di Mugler o la finta criniera di leone erano una vera ispirazione del direttore creativo Freitas o erano trigger per la nostalgia di collezioni con un concept del tutto diverso? Anche la collezione di Dario Vitale per Versace diventa più comprensibile studiando le collezioni anni ‘80 di Gianni Versace ma cosa ne ha pensato chi non sa cosa fossero Versus, Versace Jeans Couture e persino la linea Istante? Chi tra i critici ricordava ha colto subito, dicendo persino che il Versace a cui eravamo abituati finora era quello di Donatella, diverso da quello di Gianni. C’è stato chi però non ha capito, comprensibilmente. Ma a questo punto chi stabilisce la “vera” identità di un brand? Verrebbe da dire che questa identità è il frutto di una negoziazione tra il brand stesso e il pubblico. Manca però un criterio oggettivo di definizione che non può essere tutto affidato alla storia. Il principio della moda in fondo è l’immanenza, l’attualità più cogente.
A volte poi le citazioni sono impossibili da cogliere senza una spiegazione: da Chanel, le camicie erano co-firmate da Charvet perché citavano le camicie di Charvet di Arthur Campbell che Coco Chanel, sua amante, aveva iniziato a indossare. Prodotti meravigliosi, ma perché serve aver letto un libro di storia per apprezzarle? Il dettaglio citazionistico ne aumenta il valore intrinseco o riguarda solo l’intangibile percepito? Non possiamo rispondere su due piedi ma una cosa è certa: gli esperti di reference ne stanno vedendo anche troppe. «Questo continuo riproporre pezzi tirati fuori dal passato mi sta un po’ annoiando», conclude @insidethemood, che ormai preferisce reference «a un film, una scultura, un oggetto di design, un libro, musica. Davvero qualsiasi cosa».
Scendere da una giostra in corsa
«[La moda] ha raggiunto una sorta di limite massimo. Credo che ora la moda debba ripensare il proprio modello […]. È necessario riflettere profondamente sul significato della moda. A chi è rivolta? Cosa vogliamo? […]. Non tutto può essere realizzato solo attraverso la comunicazione, l'immagine o facendo indossare qualcosa a una celebrità. […] Penso che siamo in una fase in cui la moda deve reimmaginare la propria narrativa. Il lusso non è più sufficiente. È costoso e raro, quindi è buono? Non è abbastanza», ha detto Mathieu Blazy a BoF in questi giorni. Gli diamo piena ragione. Ciò che differenza la moda dal semplice abbigliamento è il suo portato culturale. «Sarebbe il momento che i brand rallentassero e forse ritroverebbero la propria identità e sarebbero capaci di dire ciò che devono sempre dover fare per forza reference interne», ha detto @insidethemood. In effetti ripetendo il proprio passato senza produrre design per il contesto di oggi e rimanendo fuori dalla portata delle masse, la moda ha perso la loro attenzione perché, banalmente, non li riguarda più e non sa più produrre cultura come un tempo. Smettendo di riguardare il contesto più ampio del mondo, la moda è diventata irrilevante: una bolla dove non arriva il rumore del mondo. Basti pensare che in piena Paris Fashion Week il governo francese è caduto per l’ennesima volta e che in piena Milan Fashion Week ci sono stati enormi cortei a Milano e in tutta Italia che hanno sostanzialmente paralizzato la città.
Uno scollamento col presente che non è rimasto inosservato. Su Puck, Lauren Sherman ha notato: «La moda non è più al centro della cultura come lo era anche solo tre o quattro anni fa, e ora stilisti e dirigenti devono capire quale ruolo essa rivesta nella vita di coloro che la consumano». Le fa eco Vanessa Friedman che in apertura di fashion week scriveva: «La moda sta vacillando sull'orlo della rilevanza, rischiando di cadere nel baratro. [...] Ripetere sempre gli stessi gesti e rifugiarsi nella nostalgia in questo momento di grande ansia [...] può essere allettante, ma rende l'intera proposta sempre più distaccata e statica. [...] Come collegare la moda all'urgenza del momento e quindi entusiasmare persone distratte, stanche e timorose riguardo al potenziale trasformativo dei vestiti è una delle domande che aleggia su ogni collezione.» In questo momento, però, l’unica sensazione è che chi guarda la moda e chi la vende vadano in direzioni opposte: i primi continuano a sognare di Galliano e McQueen; i secondi cercano solo di capire per che via arrivare al loro portafoglio.