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Il rumore come linguaggio della moda secondo GR10K I designer del brand ci hanno raccontato il concept dietro la loro ultima presentazione parigina

Con la collezione SS26, GR10K ha portato a compimento una trilogia informale di eventi performativi e sperimentazioni estetiche che hanno progressivamente spinto il brand sempre più vicino al mondo avant-garde e dell’arte analizzando «il rapporto tra musica di nicchia, cultura mediatica e spettatorialità». Nella sua ultima presentazione parigina, intitolata Cramp’d, il brand ha debuttato ufficiale nella capitale francese, e ha condensato in una performance di tre ore un’estetica ricchissima e un linguaggio apparentemente semplice ma stratificato. Cramp’d è molto più di un nome evocativo: è una condizione mentale, una modalità produttiva, un dispositivo critico che abbraccia compressione, saturazione e sovraccarico sensoriale. «Cramp’d richiama un senso di compressione, di oppressione, fisica, mentale e visiva», ci hanno detto i designer quando li abbiamo contattati «A noi riconduce a un’immagine statica piena di tensione. Inoltre, il processo stesso di realizzazione ha riflettuto il concetto di Cramp’d: abbiamo dovuto sviluppare due collezioni in parallelo, quella principale e quella per Replicated, la nostra seconda linea, con tempi ridotti». Il titolo, come ci viene spiegato, è nato prima come nome della performance e solo in un secondo momento è stato esteso all’intera collezione, proprio perché rappresentava perfettamente l’intero processo di creazione. «Tutto è stato condensato, accelerato, compresso. È stato un po’ esercizio di resistenza, quasi una performance di endurance, simile a quella della presentazione».

I capi di Cramp’d si offrono come prototipi instabili, in continua mutazione. Le costruzioni sono evidenziate, volutamente grezze: zip cucite sopra i tessuti come tagli chirurgici, felpe forate, macchiate, disarticolate. Pezzi di hoodie si saldano sulla maglieria come innesti estranei; frammenti di maglioni appaiono spillati o ricamati su T-shirt a maniche lunghe; il popeline a quadri è impiegato come fodera dissonante all’interno di tessuti tecnici impermeabili. Nulla è nascosto: ogni elemento è esposto, visibile, crudo. Ogni capo sembra costruito al limite tra funzione e collasso. «In realtà non c’è stato un vero concept alla base della collezione, né l’intenzione di esprimere una critica», ci dicono «abbiamo semplicemente raccolto immagini, riferimenti e suggestioni che ci piacevano, senza forzarle dentro una narrazione coerente». A emergere, piuttosto, è un sistema visivo che lavora per attrito, un flusso di referenze che si sovrappongono e si disturbano a vicenda. «All’interno del flusso di Cramp’d, la collezione si è formata come un montaggio istintivo di cose visivamente stimolanti». Tra i riferimenti che hanno dato forma a questa grammatica rotta: le tele di Sigmar Polke, il caos sonoro del collettivo FMP Free Jazz, i gilet da flat-track motociclistico giapponese, le felpe distrutte di GG Allin, le dotazioni antisommossa della polizia, la buffetteria da lavoro, e perfino le passamanerie ornamentali di villaggi tirolesi. Tutti questi frammenti sono stati traslati in materiali e costruzioni di precisione: cotone laminato a tre strati, jersey italiano ultra-compatto, ripstop industriale, cotone cerato e popeline tecnici. La palette è netta: bianco e nero dominano, interrotti da accenti chirurgici di giallo fluorescente, navy profondo e rosso vivo. Anche le calzature diventano parte del linguaggio formale e concettuale della collezione. Robuste, scultoree, trattate come vere e proprie armature: scudi anti-fragilità. Così come gli inserti funzionali come tasche multiple, cuciture rinforzate, laccetti e layer visibili suggeriscono una difesa contro l’instabilità del presente.

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Uno degli aspetti più affascinanti della collezione è l’uso dei dati visivi. Macro-fotografie di fili su telai industriali sono state utilizzate per estrarre “finti dati”, informazioni visivamente significative ma concettualmente arbitrarie, trasformati poi in testi e pattern ricamati. È un esercizio che sembra voler trasformare il rumore visivo in linguaggio. «La collezione si è formata come un montaggio istintivo di cose visivamente stimolanti», spiegano. «È una collezione visivamente coerente, ma costruita su stratificazioni e contrasti. Nessun messaggio chiaro, nessun intento teorico — solo un modo personale di dare forma a ciò che ci attrae visivamente e culturalmente». All’interno della collezione si inserisce un progetto parallelo che merita attenzione: Heritage, Reconstructed, realizzata in collaborazione con Alpha Industries. Il bomber CWU-45, iconadell’immaginario militare americano, è qui smembrato, svuotato, riconfigurato come divisa di un’istituzione fittizia: HERTRUDE WADSWORTH – MUSÉE DES ARTS APPLIQUÉS, un ente sospeso tra ordine burocratico e decadenza modernista. Le zip industriali lasciano spazio a un sistema di corde intrecciate con moschettoni satinati Nite-Ize® e terminali in gomma, l’imbottitura viene rimossa e archiviata, le fodere interne assumono tinte pop e brillanti, in contrasto con la severità del capo. Con la linea Replicated, invece, il brand riflette sul concetto di uniforme «intesa come struttura, come ripetizione quotidiana, come presa di posizione», ci dicono.«L’uniforme è meno un simbolo visivo e più una forma mentale, una pratica di vita».

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A dare corpo all’idea di Cramp’d non è solo l’abbigliamento ma anche il modo in cui esso viene presentato. La performance parigina si è sviluppata come una sitcom distorta, pensata per sospendere l’osservatore in uno stato di passività profonda, di immersione anestetica. «La performance parigina ha creato una vera esperienza di immersione profonda e passiva, proprio come quando ti perdi nel bingewatching», raccontano i designer. «Alla fine, chi la guarda si sente come dopo una pausa rigenerante». La moda diventa coreografia visiva, i capi si muovono in un tempo rarefatto, sfuggente, mentre musica e arte dialogano senza soluzione di continuità. L’obiettivo dichiarato era superare la compartimentazione disciplinare tra musica, arte e moda: «Abbiamo voluto che musica, arte e moda non rimanessero linguaggi separati ma si contaminassero in modo esplicito e performativo. L'abbigliamento è parte integrante della performance. I vestiti sono costumi, e i costumi parte della narrazione scenica». È per questo che GR10K ha orchestrato una collezione che abbraccia la tensione tra eccesso e vuoto, tra struttura e collasso. I capi non comunicano messaggi chiari né cercano risposte immediate: sono strumenti di trasmissione estetica e simbolica, condensazioni di tempo, materia e cultura. «Nessun messaggio chiaro, nessun intento teorico — solo un modo personale di dare forma a ciò che ci attrae visivamente e culturalmente».