
I problemi della moda italiana secondo i designer che la fanno In conversazione con Federico Cina, Lessico Familiare, Tokyo James, Simon Cracker, Marco Rambaldi e Dhruv Kapoor
A Milano la moda è un’istituzione. Gonfia le tasche della città dagli anni ‘80, ma oggi il suo alone di glamour e di esclusività rappresenta uno dei paradossi più grandi della fashion industry italiana: in quanto industria creativa, attrae continuamente giovani talenti che portano idee nuove, eppure continua ad operare secondo logiche passate. Se fino a poco fa la moda a Milano riusciva ad andare avanti grazie a riferimenti nostalgici e alla reputazione del Made in Italy, oggi questi valori, scalfiti da una saturazione estrema dell’autoreferenzialità dei brand e dagli scandali legati alla manifattura, vengono meno. Il soffitto di cristallo che fino a prima separava i marchi storici e i loro dirigenti dalle nuove voci della industry presenta ormai venature irreparabili, procurate anche e non solo da una comunicazione aggressiva da parte degli stessi grandi brand sui social. Come si possono giustificare i prezzi esorbitanti del lusso, se tutto quello che ha cercato di fare negli ultimi anni è stato avvicinarsi alla cultura popolare? Come si può chiamare innovativa un’istituzione che, nel 2025, trova riparo solo nello stile rassicurante del proprio archivio?
Il problema che opprime la moda contemporanea di Milano è sistemico, e ciò che affermano i designer che abbiamo intervistato in questi giorni ne è la prova. L’esclusività, raccontano, è il nemico numero uno dell’innovazione, specialmente se viene tutelata unicamente per garantire un senso di aspirazionalità che non può essere soddisfatto. «La moda ha sicuramente bisogno di mantenere un’aura di desiderio, ma se diventa solo un recinto per pochi perde il suo significato», afferma Federico Cina, designer e fondatore dell’omonimo brand lanciato nel 2019 per celebrare le radici romagnole del creativo. Anche i proprietari di Lessico Familiare, brand di upcycling vincitore del Camera Moda Fashion Trust 2025, sembrano pensarla così: «da un lato finge di essere esclusiva per garantirsi un certo status, dall’altro, essendo tutto fruibile online, è paradossalmente inclusiva».
Un punto interessante sulla questione viene sollevato da Iniye Tokyo James, designer nigeriano finalista del LVMH Prize nel 2022 che ha partecipato più volte alla Milano Fashion Week. Riflettendo sull’ambiguità di un sistema basato su beni che si sforza di partecipare alla cultura popolare, James riconosce che l’inaccessibilità può essere un valore aggiunto. per una maison che deve proteggere la propria identità. Diventa problematico quando sfocia in gatekeeping, limitando opportunità e diversità. «Credo che si possa trovare un equilibrio - aggiunge - si può mantenere la propria identità, favorendo al contempo l’inclusività in termini di accesso, sviluppo dei talenti e narrazione». E un investimento a breve termine sui nuovi talenti, così come un ridotto premio in denaro o un breve periodo di tutoring, non bastano a promuovere chi vuole sviluppare un’azienda che duri nel tempo; ci vogliono piani accorti e infrastrutture più significative, rivendica James.
Insieme a Cina, al collettivo fondatore di Lessico Familiare e a Tokyo James, anche designer più maturi come Simone Botte, che ha lanciato il brand Simon Cracker nel 2010, riconoscono che la moda si trova di fronte a un punto cieco. «Mi piacerebbe che si smettesse di dire che serve qualcosa di nuovo, se poi ogni scelta davvero controcorrente si scontra con un muro di cemento - commenta lo stilista - È come se la nuova generazione della moda fosse costretta a muoversi dentro un contenitore già prestabilito, invece di avere lo spazio per sperimentare davvero». Dalla stampa alle istituzioni come la Milano Fashion Week, dai fondi per i nuovi talenti agli spazi che gli vengono riservati per sfilate e presentazioni (troppo spesso ai margini della città) - è difficile per la nuova guardia emergere, quando il sistema spesso gli volta le spalle in favore di schemi e nomi già testati. Cracker sottolinea che per fare spazio all’innovazione c’è bisogno dell’aiuto di tutti: della stampa italiana, che deve celebrare tutti i protagonisti e «non solo quelli sostenuti da investimenti pubblicitari», dei buyer, che hanno «la responsabilità di proporre qualcosa di nuovo ai client invece di soddisfare la domanda», e degli store e dei brand che «non pagano i designer emergenti mettendoli in grande difficoltà». Ancora una volta, il bisogno di community risuona tra le parole dei creativi italiani, stufi di un sistema che non sa fare squadra.
Ogni generazione ha un set di valori che ne caratterizzano scelte e interessi. Se negli anni ‘80 la moda voleva fare impresa e nei ‘90 si è tuffata nell’artisticità, «la mia generazione sente la responsabilità di parlare di politica, di diritti, di comunità, di sostenibilità» commenta Marco Rambaldi, stilista che ha fondato un brand nella sua città natale, a Bologna, nel 2017. «Non ci interessa inseguire un’idea di status, ma usare la moda come linguaggio per cambiare le cose», il che motiverebbe l’esigenza di un sistema più inclusivo e aperto al pubblico. Rambaldi spiega che la percezione di lusso è cambiata: se fino a poco fa un capo Made in Italy era considerato di pregio per la sua storia e fattura, oggi ciò che conta davvero è la sua «capacità di generare appartenenza». Perché la moda non è più un circuito che funziona più come una piramide costruita in base all’apparenza, ma come una rete di connessioni tra persone legate da una passione comune. Gli abiti e i brand che funzionano, ormai, sono quelli che comunicano questi valori.
Valori generazionali a parte, bisogna riconoscere che la commercialità sarà sempre un obbligo per un brand di moda che vuole rimanere attivo - come raccontano i founder di Lessico Familiare, «se non vendi sei fuori» - ma il senso del sociale e le ambizioni della nuova guida della fashion industry italiana raccontano di intenzioni piuttosto pure. Cina, per esempio, dice che la sua generazione «non cerca il successo commerciale o l’approvazione delle grandi maison: vuole raccontare qualcosa di personale, dare voce a un’identità. C’è un desiderio forte di autenticità e di lasciare un segno che non sia solo estetico, ma anche culturale ed etico». Un pensiero condiviso anche da James - «Per molti di noi, l’obiettivo non è solo creare collezioni stagionali, ma costruire marchi che vivranno più di noi, brand che restino come eredità culturali» - e Rambaldi - «puntiamo a costruire identità forti, coerenti e autentiche, capaci di durare nel tempo e di avere un impatto culturale». Dhruv Kapoor, uno dei designer indiani più influenti del paese che da anni sceglie di presentare a Milano, affianca il pensiero dei suoi colleghi italiani commentando che «i designer di oggi pensano alla responsabilità verso le persone, il pianeta e la cultura». Per lo stilista, l'obiettivo principale della sua generazione è «mettere in discussione, provocare e curare attraverso i vestiti. Non è un rifiuto del passato, ma una sua evoluzione».
Insomma, è arrivato il momento per l'industria della moda italiana di ascoltare le voci di chi presto ne diventerà protagonista. Per quanto i grandi nomi del calendario abbiano resistito al passare degli anni, tra cambi alla direzione creativa e alla dirigenza aziendale, se Milano vuole rimanere rilevante nel panorama internazionale deve ingranare una nuova marcia, più veloce e proiettata nel futuro. «Vorremmo guardare le sfilate e riconoscere il brand, bello o brutto che sia, e ricordarci quella collezione anche a distanza di anni», commenta Lessico Familiare; «Vorrei che la moda italiana tornasse ad avere un rapporto più autentico con le proprie radici e con le persone reali», aggiunge Cina, mentre Rambaldi spera nella nascita di un «sistema meno gerarchico, un ecosistema capace di nutrire l’innovazione e la coerenza dei processi». Se le vendite sono l’obiettivo più grande della moda italiana, ma in questo momento l'industria sta affrontando un periodo di crisi, allora lo schema adottato finora non funziona più. Non si tratta di una critica, ma di un reindirizzamento di attenzione: Milano e il resto d’Italia brulicano davvero di nuovi talenti, designer e imprenditori giovanissimi che sono pronti a mostrare la propria idea di innovare il sistema. Fuorimoda, in tutto ciò, può essere un bel punto di partenza.









































