FUORIMODA REVIEWS – La prima piattaforma online per recensire i fashion show

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La storia astratta del nuovo Dior di Jonathan Anderson Quando la sartoria disegna la linea che va passato a futuro

Pochi debutti nella moda erano attesi quanto quello di Jonathan Anderson da Dior. Parliamo ovviamente del debutto nel womenswear di Dior, ben più importante del debutto (già avvenuto) della linea maschile, che certamente ha il suo peso ma non rappresenta la vera, storica vocazione del leggendario brand. Per segnare un inizio tanto importante, anche perché si parla del secondo brand più grande di LVMH, Anderson ha optato per un preambolo: un montaggio di video che ripercorre, omaggiandola, tutta la storia precedente di Dior in una serie di spezzoni che, sul finale, si consumano e collassano prima di far iniziare l’effettiva sfilata. E si può senza dubbio dire che l’idea della storia, dei suoi angoli di lettura e delle sue interpretazioni sia stata presente nella mente di Anderson nel comporre uno stuolo di look in cui i singoli riferimenti storici, i dettagli presi da questa e quell’epoca e le reminiscenze della storia si sublimano attraverso un uso astratto dei volumi e dei materiali. 

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L’occhio vagamente surrealista di Anderson ha fatto di tutto con la classica Bar Jacket: l’ha ristretta, ne ha trasformato gli orli inferiori in volute che si avvolgono su loro stesse; l’ha trasformata in un blazer sportivo, in una giacca da smoking.  Né sono mancati numerosi riferimenti a modelli storici di Dior tra cui il celebre abito Juno, l’abito Tulip del ’53, l’abito Eugénie e quello dal taglio “a zig-zag” del ’48 e le varie linee oblique e a tunica. Tutte queste citazioni, però, erano fuse in una visione, come si diceva, astratta che riconosceva le ascendenze dei design senza però ricopiarli alla lettera: le silhouette avevano citazioni ma non erano citazioni. L’intento della collezione in questo senso era chiaro. La proposta principale era un senso di modernità.

Sanno in effetti di moderno, o addirittura di avvenieristico, gli impieghi di certi volumi, la posizione quasi maliziosa di certe coccarde, le gonne-fiocco, top plissettati simili a tende. In mezzo a questi look più concettuali che forse vedranno soltanto le luci del red carpet, erano abilmente dissimulati look commerciali ma non meno attuali, molto striminziti e rappresentati da ensemble di cotone a quadri o a fiori, combinazioni di Bar Jacket e minigonne di jeans, combo di polo e mega-pantaloni, tutine aderenti che mescolavano activewear e camiceria dando l’impressione di un frac e via dicendo. Gli Anderson-ismi erano molti, tra cui un paio di jeans con allaccio a sbieco, gli abiti a sacco (il più bello era decorato da grandi ortensie) e in generale l’insistenza sulle volumetrie tortili di materiali annodati e intrecciati le cui pieghe diventavano sculture. Il contrasto tra le due anime dello show, non troppo aspro in ogni caso, ha creato qualche discontinuità.

Tra soggoli e bluse, prestiti dal guardaroba preppy maschile e una palette di colori tenue e delicata ma mai esangue, si evince che questa collezione voleva più stabilire un tono che avviare una narrazione. In termini moderni, non è chiarissima la vibe del brand. La nuova “donna Dior” era molto più visibile negli outfit delle celebrity in front row, che riflettevano senza dubbio l’aspetto della collezione commerciale che effettivamente vedremo in negozio. È un’estetica molto “twee”, bon-ton e luminosa, quasi fatata se vogliamo, nel senso più etereo e gentile del termine. Ma un'estetica non è per forza una personalità o una direzione stabilita. In passerella, al netto di diversi look ripetitivi, Anderson è riuscito con buon esito a far incontrare il suo linguaggio e il mondo di Dior. Ma la domanda adesso è: nelle prossime collezioni sarà in grado di darci un carattere e un’attitudine veramente definiti?