
Il menswear è in crisi creativa? Tra show cancellati e monotonia estetica, l’innovazione del guardaroba maschile sembra impossibile
«L'abbigliamento maschile è fondamentalmente progettato dagli uomini stessi. È la categoria più difficile da disegnare in qualsiasi brand, perché il suo pubblico è così testardo. Gli uomini non amano che gli si dica cosa devono mettere, come invece accade alle donne», disse una volta Lee McQueen. Una frase che spiega bene lo strano periodo che si annuncia per la moda maschile, tra show cancellati e il sorgere di cult brand indipendenti, e che forse prelude a una crisi creativa del menswear.
La scomparsa delle sfilate maschili
Il dubbio sul cambiamento di status del menswear è stato giustamente sollevato su Instagram da Antonio Padilla, che ha notato un forte declino della categoria che si manifesta attraverso show cancellati, accorpamenti delle collezioni maschili in formati co-ed e settimane della moda maschili sempre più spopolate. Potremmo fare iniziare tutto da quest’estate quando l’edizione maschile della London Fashion Week è stata cancellata del tutto. Ma anche a Milano il calendario maschile, come abbiamo notato più volte, va svuotandosi sempre di più ogni stagione. Adesso le cose sono accelerate.
Proprio oggi, Emporio Armani ha annunciato l'adozione del formato co-ed. Da Kering, con il piano di stabilizzazione di Luca De Meo, è stato escluso del tutto il menswear dalle sfilate di McQueen, che rimarrà un’appendice commerciale. Anche da Gucci è stato annunciato un regime co-ed per il prossimo futuro che, per la verità, è stato la norma per il 2025 e per tutta la lunga era di Alessandro Michele. Non si sa nulla, poi, del destino del menswear nelle nuove direzioni creative di Loewe, Balenciaga e Givenchy. Relativamente a quest’ultimo brand, poi, l’apparizione di Paul Simonon nella campagna SS26 ha fatto pensare che una linea menswear potrebbe in effetti essere lanciata. Al momento comunque sembra limitata a un anonimo completo nero.
In generale, anche da LVMH il menswear sembra retrocedere in silenzio. Dior Men non dedica uno show Resort al menswear dal 2022 e l’ultima Pre-Fall 2026 di Jonathan Anderson è uscita oggi confermando che la collezione sarà presentata via lookbook. Al 2023 risale invece l’ultimo show di Louis Vuitton dedicato a una pre-collezione maschile: da lì in avanti sono rimasti due show annuali per il menswear, mentre il womanswear ne ha tre. Dal 2024 Fendi e Kenzo hanno accorpato le collezioni in un formato co-ed mentre Berluti, che fa solo menswear, non sfila da ben cinque anni.
Confrontando i numeri delle sfilate tra la stagione SS25 e SS26 si va da un’ottantina di show nel giugno 2024 a circa 55 nel giugno 2025 ovverosia un calo medio del 30%. Certo considerando i brand che si sono spostati al formato co-ed la riduzione netta arriva al 9% ma il calo fa notare come la categoria stessa stia perdendo di importanza.
Perché si rinuncia alle sfilate menswear?
For people asking what's the menswear equivalent of this aesthetic, you can check out (in order of appearance): Lemaire, Auralee, Stoffa, and 7115 by Szeki. More affordably, Uniqlo U. Designer lines are $$$, but you can also experiment with stuff like workwear and vintage pic.twitter.com/eQSIRLNqFU
— derek guy (@dieworkwear) October 31, 2024
Non possediamo dati precisi per le performance commerciali del menswear, ma è sicuro presumere che in questo momento il ready-to-wear maschile semplicemente non vende quanto quello femminile. Organizzare una sfilata costa milioni di euro e se dunque il menswear non fa una vera differenza in termini di fatturato né di immagine, in una fase di razionalizzazione e ristrutturazione è logico che venga sacrificato per primo.
In generale, gli uomini che apprezzano la moda stanno forse distogliendo la propria attenzione dai grandi nomi del lusso tradizionale. Nei discorsi degli appassionati, oggi, c’è più hype per brand come Auralee, Mfpen, Our Legacy, Rier, Stoffa, Studio Nicholson, Comoli o A.Presse che sono tutti brand piccoli, con una fortissima community e molto incentrati su prodotti minimalistici che danno enfasi a costruzioni utility e materiali eccezionali.
Sul piano dei grandi numeri, però, il segmento del menswear è commercialmente bloccato: secondo Statista, ad esempio, il mercato totale, pur valendo centinaia di miliardi annui, dovrebbe crescere solo del 1,7% nel 2026. Secondo Euromonitor invece il menswear dovrebbe crescere circa dello 0,2% in più rispetto al womanswear nei prossimi quattro anni anche se i due segmenti hanno dimensioni molto diverse e il secondo resterà la categoria dominante. Viene allora spontaneo chiedersi come mai la moda maschile stenti a decollare e l’unica risposta sembrano essere i suoi stessi limiti strutturali: gli uomini si vestono con capi per lo più basici in effetti. Il che ci porta a domandarci: il menswear sta restando indietro perché è poco innovativo?
Tutto il menswear è lo stesso menswear
Da almeno un paio d’anni su BoF si parla di un’epidemia di “sameness” nel menswear. Il termine indica la monotonia dei look maschili che, al di là delle proposte minimamente variate della sartoria e delle palette di colori, continuano a ripetere un look basico che può oscillare dal formale al workwear (tutti i brand minimal-scandinavi o giapponesi fanno solo workwear, grunge e preppy) che in sostanza non offre alcuna vera forma di prodotto innovativo su cui concentrarsi.
Prendendo due negozi di menswear di culto oggi, Ven Space a New York e The Archivist a Parigi, rispettivamente un multi-brand e un rivenditore di moda d’archivio, possiamo notare che la loro curatela e selezione di brand e stili è praticamente immacolata, perfetta. Ma è impossibile non notare però che i prodotti che paiono funzionare così bene nel menswear siano in generale esteticamente “basici” e riconoscibili. Concentrandosi poi solo su Ven Space, possiamo notare che solo quattro delle decine di brand in negozio (e cioè Auralee, Dries Van Noten, Comme des Garçons e The Row) fa parte di un qualsivoglia calendario sfilate.
@tanner_dean Ven. Space #nyc #fashion Rinsed - Dean Blunt
Passando al mondo del lusso, poi, e volendo ad esempio esaminare la Pre-Fall 2026 di Dior che, come si diceva, è uscita proprio oggi, è facile vedere che, eliminando i mega-shorts ispirati allo storico abito Delft di Dior e gli abiti napoleonici già apparsi nel primo show maschile, il look reale su cui si continua a scommettere include jeans, maglioni monocromi, blazer e cardigan, mocassini: insomma un look il cui vero specialista sarebbe Ralph Lauren e che in generale non include design che non si trovino già ovunque, dettagli e fattura a parte.
Per la verità, negli ultimi anni, fare del menswear innovativo negli ultimi anni è spesso diventato sinonimo di femminilizzazione nuda e cruda. Il che non è un problema ma fa perdere al menswear il proprio appeal di massa in quanto è una scelta estetica che “parla” solo al quadrante LGTBQ+ della clientela di moda. Dopo l’ultimo show di Valentino, ad esempio, Jacob Gallagher del NY Times ha scritto: «Non sono convinto che molti retailer saranno così rapidi a destinare i budget del menswear a top gialli senza maniche alla Big Bird, camicie trasparenti e bluse color petrolio arricciate. Nella haute fashion il genere può anche essere un concetto poroso, ma le realtà commerciali restano ben solide».
Sempre di più, innovare il guardaroba maschile sembra un’impresa simile a reinventare la ruota. Per il segmento cis-gender di quella clientela, in effetti, la proposta rimane ferma o ai capi basici stile Uniqlo traslati su diverse basi di prezzi o a vestiti stile vintage che si trovano già nel guardaroba del nonno; oppure a una versione di capi informali, un po’ pacchiani e pesantemente logati che indossano danarosi turisti cinesi, russi o arabi nelle capitali del lusso europeo o in località di Resort come Saint Tropez, Gstaad o Capri. Ma se sarà questo tipo di menswear a morire, possiamo certo dire che non ci sarà quasi nessuno a piangerlo.
Takeaways
- Il menswear sta vivendo un momento di crisi creativa e commerciale: le sfilate dedicate scompaiono o vengono accorpate in formato co-ed, i calendari si svuotano (con un calo netto del 9-30% di show tra il 2024 e il 2025) e i grandi gruppi del lusso sacrificano gli show maschili per contenere i costi.
- Il ready-to-wear maschile vende meno di quello femminile e contribuisce poco all’immagine dei brand, spingendo case come McQueen, Gucci, Dior, Fendi e Kenzo a ridurne la visibilità.
- Nel frattempo, l’interesse degli appassionati si sposta verso marchi indipendenti piccoli e community-driven (come ad esempio Auralee, Mfpen, Rier, Stoffa, Our Legacy) che propongono un minimalismo essenziale, fatto di materiali eccellenti e silhouette “basica ma perfetta”.
- Questa uniformità estetica rende quasi tutto il menswear contemporaneo intercambiabile, privo di vera innovazione di prodotto. Quando si tenta di innovare, spesso si finisce in una femminilizzazione spinta che parla principalmente a una nicchia LGBTQ+ e non performa bene con il pubblico di massa.
- Il risultato è un settore che sembra incapace di uscire dal loop di jeans, blazer, maglioni monocromo e workwear rivisitato, mentre il consumatore maschile medio continua a preferire capi sicuri, eterni e poco rischiosi.












































