
La ritrovata sobrietà dello show SS26 di Valentino Alessandro Michele riscopre la bellezza della (relativa) semplicità
Qual è il lavoro di direttore creativo? Quello di un autore o quello di un interprete? La risposta a questa domanda non è mai semplice ed è più dettata dalle circostanze che da una regola fissa. È stato il caso, ieri, della collezione SS26 di Valentino, dove finalmente Alessandro Michele ha fatto un passo indietro e sedato i propri istinti più teatrali. Il risultato è stata una collezione di salutare compromesso: riconoscibilmente Michele nello stile, ma senza gli svolazzi e barocchismi declinanti nel bislacco delle stagioni iniziali. I limiti dopotutto fanno bene ai creativi, la disciplina è uno stimolo verso la concentrazione e la purezza dell’estetica che non significa minimalismo ma chiarezza e precisione, senza distrazioni o fumo negli occhi.
Con un mercato così affollato e affaticato, l’ornamento tradisce subito la sua stessa futilità, e il pubblico stesso può riservare attenzione solo alle proposte serie e sensate. Non di meno, in un’epoca in cui i direttori creativi ruotano e si spostano, riscrivendo a ogni passaggio le identità di ciascun brand, stravolgere brand già ben definiti è un’operazione ad alto rischio ed è dunque bene frenare gli istinti e sforzarsi di cercare un compromesso razionale tra i due aspetti del lavoro, per l’appunto tra l’autore e l’interprete. Un messaggio che è stato evidente anche nelle show notes fornite da Michele per accompagnare la presentazione.
Cosa significavano le show notes di Valentino?
Il cambio di marcia si è visto anche nelle show notes della collezione, che abbandonano il trattato misticheggiante e spesso pretenzioso del passato, per quattro puliti paragrafi in cui lo spirito di Michele emerge con il consueto gusto della meditazione letteraria: a partire da una lettera di Pasolini scritta nel pieno dell’era fascista, Michele ragiona sull’immagine delle lucciole nella letteratura del dopoguerra, metafora di un mondo rurale e romantico che svanisce di fronte alla modernità. Oltre a Pasolini e Calvino, entrambi citati nel testo, potremmo aggiungere poeti come Rebora, Trilussa, Montale in forma minore, Bertolucci oltre che il romanzo Luciérnagas di Ana María Matute.
Nell’epoca in cui l’antico mondo contadino si scontrava con la modernità dei radar e dei carrarmati, la lucciola era un simbolo della natura, della meraviglia che deriva da essa e della sua stessa transitorietà. Nelle show notes le lucciole diventano «segnali di speranza» e dunque bisogna «capire come il buio del nostro presente sia in realtà intramato da sottili sciami di lucciole: indizi che annunciano altri mondi a venire, tracce di una bellezza che resiste all’omologazione, epifanie sensibili capaci di riconnetterci all’umano». La lucciola è dunque il momento di rivelazione in cui capiamo che c’è ancora del bello nel mondo e che vale la pena lottare per esso.
E cosa c’entravano con la collezione?
Il fatto che invece di parlare di iperurani e meta-teatri Michele abbia citato i barlumi di bellezza del reale significava, tra le righe, che la collezione avrebbe riguardato meno un altro mondo (teatrale o onirico che fosse) e più il nostro. Ora, mettendo per un secondo da parte gli occhiali tinti di rosa della poesia, i motivi dietro questa sobrietà sono forse più cinici: il comando generale del brand, che ha bisogno di buoni risultati economici come non mai, avrà fatto capire che era il tempo di giochi e girotondi era finito. Serviva una collezione sempre bella e romantica, ma che le persone nel mondo reale potessero indossare senza sembrare la nonna di Anastasia Romanoff o le comparse di una produzione fin-de-siécle della Salomè di Oscar Wilde. E per fortuna.
Grazie a questo ottimo esercizio in disciplina e anti-indulgenza, la collezione conserva tutto il sapore di Alessandro Michele, che rimane a oggi uno dei migliori designer di abiti da sera sul mercato, strizzando l’occhio al Valentino degli anni ’80 (anche qui senza esagerare) e si porta finalmente vicino, in una maniera convincente, a interpretare l’heritage del grandissimo couturier italiano in modo onesto e sincero. Bastava, in effetti, per controbilanciare il “peso” dei look più eccentrici, semplificare lo styling, ripulire le silhouette da perle, berretti, gioielli, stole di pelliccia e da quell’armamentario post-ironico per parlarci in modo diretto e franco. Una sobrietà che ha concesso anche agli accessori più eccentrici e pailllettati di conservare la loro originalità senza sembrare over the top. In tempi sempre più squilibrati, in effetti, la vera provocazione è mantenere il proprio equilibrio il più fermamente possibile. Speriamo che nel futuro i tempi diventino più equilibrati e il Valentino di Alessandro Michele rimanga esattamente così.




























































































































