
La storia di SSENSE non è ancora finita Ieri, all’azienda è stata concessa una proroga fino al prossimo febbraio per riorganizzarsi
Nella moda, più che collassi improvvisi, ci sono implosioni al rallentatore. E spesso una bancarotta non significa la fine. È un po’ quello che sta succedendo con il collasso di SSENSE: colpita dai dazi americani in un mercato del lusso già debole, l’azienda ha provato prima a tagliare i dipendenti, poi si è ritrovata in un braccio di ferro contro i creditori che volevano forzare la sua vendita e infine ha dovuto chiedere la protezione della legge canadese per evitare la disintegrazione e provare a ristrutturarsi.
Da lì è iniziato un complesso tira-e-molla di valutazioni e offerte, di rifinanziamenti e ristrutturazioni che non sembra avere fine sotto la spada di Damocle di un debito che si aggira intorno ai 371 milioni di dollari canadesi. Ieri, il Tribunale Superiore del Quebec ha emesso una nuova ordinanza di sospensione dei procedimenti fino al 19 febbraio, offrendo a SSENSE un paio di mesi extra per riorganizzare le proprie attività ed evitare l’avanzata di creditori, banche e fornitori.
A che punto siamo con la bancarotta di SSENSE?
@thisisantwon SSENSE owe people a lot of money. Hope Balenciaga can get it all back. #streetwear #fashion #ssense BAREFOOT IN THE PARK - Shiro SAGISU
La decisione del tribunale canadese è la più recente di una serie di estensioni concesse a SSENSE dal settembre scorso, quando il retailer ha presentato istanza per la protezione dai creditori ai sensi del Companies' Creditors Arrangement Act, una legge nota con l’acronimo di CCAA. La richiesta iniziale era arrivata in risposta alle pressioni dei creditori, che avevano avviato azioni per forzare la vendita dell'azienda e recuperare i debiti accumulati.
Circa a metà dello scorso settembre, SSENSE ha ottenuto un finanziamento interinale di 40 milioni di dollari canadesi (circa 28,8 milioni di dollari americani), anche se i documenti depositati presso Ernst & Young rivelano debiti molto superiori. La parte più scandalosa dell’intera vicenda, però, è arrivata a questo punto dato che Ernst & Young ha pubblicato la lista dei brand a cui il retailer doveva ancora dei soldi: una lista piena di nomi di brand indipendenti che erano proprio quei brand che tutti ritenevano che SSENSE promuovesse.
Nell’intera vicenda, l’attuale CEO Rami Atallah non ha escluso una vendita se le cose dovessero mettersi male (in quel caso lo scenario ipotetico sarebbe simile a quello di Farfetch) ma la sensazione è che voglia tenersi stretto l’azienda. Già a settembre, Atallah aveva annunciato che lui e i due fratelli, tutti fondatori di SSENSE, avrebbero presentato un’offerta propria. Ma ora pare che si stiano valutando anche diverse proposte di investimento e rifinanziamento.
All'inizio del mese, il termine per la presentazione di offerte qualificate da parte di potenziali acquirenti è stato posticipato all'8 dicembre ma poco altro si sa. Chiaramente, se un salvatore fosse arrivato a risollevare il brand la cosa sarebbe stata annunciata quindi è probabile che la situazione sia ancora in sospeso. In generale, l’azienda ha fatto sapere che «le richieste di estensione della sospensione dei procedimenti continueranno a essere presentate al tribunale, secondo necessità, fino al successo dell'uscita dalla procedura CCAA».
Come finirà la storia di SSENSE?
Sir, SSENSE just filed for bankruptcy pic.twitter.com/qV9qDrmaSj
— Street Night Live (@StreetNightLive) August 28, 2025
È chiaro che, se una proroga è stata concessa, la famiglia Atallah non ha trovato una soluzione ai propri problemi. È possibile che dietro le porte chiuse siano stati contattati fondi di investimento o grandi società che operano nell’e-commerce, senza però trovare acquirenti interessanti. Dopo tutto nessuno vuole sborsare troppo per un cavallo zoppo. Sembra comunque chiaro che se il processo non si concluderà entro febbraio, è probabile che una nuova proroga potrebbe essere concessa.
Attualmente, per gli insider del settore, il vero danno per SSENSE è reputazionale oltre che economico. Numerosi proprietari di piccoli brand che avevano anche successo online, ma anche di brand più solidi come Auralee o Lemaire, si sono trovati sul fronte di detonazione di questa faccenda oltre che, in certi casi, proprio sul lastrico. È indubbio che i recenti disastri finanziari dei grandi e-commerce di lusso cambieranno non tanto la maniera in cui i grossi brand commerciali operano (da anni vanno restringendo i retailer preferendo le vendite dirette) ma i brand più piccoli e indipendenti che, paradossalmente, erano proprio quelli per cui SSENSE era più essenziale.
Takeaways
- La crisi di SSENSE sembra sempre più una lenta implosione, aggravata da un mercato del lusso già fragile, dai dazi americani e da un debito di circa 371 milioni di dollari canadesi.
- Per evitare la vendita forzata e il fallimento, l’azienda ha chiesto protezione ai sensi della legge canadese CCAA, ottenendo più proroghe per ristrutturarsi e cercare nuovi finanziamenti o investitori.
- Nonostante un finanziamento interinale e l’ipotesi di una cessione, la situazione resta incerta e la famiglia Atallah sembra voler mantenere il controllo valutando diverse soluzioni.
- Il danno più rilevante appare essere reputazionale oltre che economico, con conseguenze particolarmente pesanti per i piccoli brand indipendenti legati alla piattaforma.












































