
«Penso ai marchi come a degli animali», intervista a Luca Solca Abbiamo discusso con l’analista-star di Bernstein il futuro del lusso
Luca Solca, Managing Director per il settore del lusso di Sanford C.Bernstein, è un nome che ricorre moltissimo nella stampa di moda. Solca è forse l’analista più citato in assoluto quando si parla del mercato del lusso ed è facile immaginare che, con la crisi che in questi mesi ha imperversato nel settore, i suoi interventi siano stati ancora più richiesti del solito.
Proprio per approfondire la questione della crisi dei consumi del lusso, che ha portato tanti brand a cambiare direttori creativi e tanti player del mercato a rimescolare i propri manager e CEO, lo abbiamo contattato e abbiamo provato a fare il punto della situazione. Situazione che, con cautela, Solca ci ha spiegato essere in fase di lento miglioramento. Ma cosa dobbiamo aspettarci per il 2026?
Gli ultimi risultati trimestrali da parte dei grandi gruppi del lusso sono stati incoraggianti dopo un anno molto difficile. Possiamo dire che la crisi è finita?
L.S.: Questi due anni sono stati una normalizzazione delle spese dopo il boom di consumi post-Covid, specialmente in Cina, dove la crisi dell'immobiliare ha spinto molti a spendere meno. Puoi andare a cercare i consumatori nel Midwest, nel Sud-Est asiatico ma la Cina per ora rimane centrale. La cosa strutturale che manca è l'appetito del consumatore cinese che è molto attento e molto prudente. Negli ultimi 4 o 5 mesi sembra che ci sia un miglioramento in corso. Non repentino, ma graduale. E sembra che continuerà. Se i cinesi torneranno a spendere, l’anno prossimo parleremo di un boom del lusso.
Cosa si intende precisamente per normalizzazione?
L.S.: Nei primi vent'anni del secolo, i principali marchi e gruppi sono cresciuti in media dell'11% all'anno. Dal 2019 al 2023 hanno raddoppiato il fatturato, crescendo del 20% all'anno. Quindi con normalizzazione si intende che dal 2023 in avanti siamo andati sotto la media per poi ritornare sulla linea di tendenza. Quest'anno, per quanto riguarda la domanda in Occidente, credo che la normalizzazione sia conclusa.
E cosa succederà secondo lei nel 2026?
L.S.: Ci aspettiamo una crescita fra il 4% e il 5%. Quindi un miglioramento progressivo. I mercati che possono contribuire a dare impulso maggiore alla crescita sono gli Stati Uniti e il Medio Oriente dove abbiamo la crescita più importante. E poi a seguire gli altri mercati come l'Europa, il Sud-Est asiatico e per alcune categorie di prodotti anche l'India per esempio per gli orologi.
Quali sono stati i fattori che hanno alimentato questa crisi?
L.S.: Di sicuro, la partecipazione della classe media al mercato. I clienti aspirazionali finora sono stati soprattutto nuovi consumatori della classe media nei paesi emergenti, mentre in Occidente la classe media è sotto pressione da quarant’anni. La prima ragione per cui oggi l'industria sta crescendo di meno è che in paesi come la Cina non ci sono nuovi consumatori di classe media. Soprattutto negli Stati Uniti, quest’anno la classe media è stata colpita da una forte inflazione e da un incremento di prezzi. I consumatori che non si potevano più permettere i brand europei sono andati verso marchi come Ralph Lauren o Coach.
Questo si vede più nella moda e nella pelletteria che nella gioielleria, per esempio. La gioielleria è rimasta più coi piedi per terra dopo il Covid e quindi oggi sta guadagnando share-of-wallet, nel senso che i consumatori preferiscono un gioiello o un orologio che una borsa.
Luxury Market Recovers but Trust Crisis Evident — Bain Report
— Amanda Chen (@Amanda12266) November 25, 2025
According to Bain's latest report, the global luxury market is expected to recover to 3-5% growth by 2026.
However, years of continuous price increases have left some consumers, even high-net-worth individuals,…
Secondo lei i problemi di crescita sono attribuibili ai prezzi troppo elevati per il segmento aspirazionale?
L.S.: Di sicuro, nella società in generale, le differenze di reddito e ricchezza stanno continuando a polarizzarsi. C’è ora un segmento che sempre più ricco con consumi sempre più alti. Non è grande ma è attraente. Ma non ha senso dire che quelli che hanno alzato i prezzi erano ingordi o sciocchi. Tra 2021 e 2022, siamo usciti dalla pandemia e abbiamo ripreso a consumare e comprare, specialmente moda, gioielli e orologi. Se i marchi fossero stati troppo accessibili, ci sarebbe stato il rischio di banalizzazione. Di fatto la promessa che ti fa un marchio del lusso è quello di renderti speciale, unico.
E credo che questa sia una parziale spiegazione del perché alcune aziende hanno deciso di incrementare i prezzi così tanto. Anche se c'è una parte di errore vero e proprio. Se guardiamo quanto costa produrre un prodotto e poi il prezzo, e si è visto anche in alcuni casi eclatanti, il moltiplicatore del costo di produzione è salito a dieci, quindici volte. Forse anche di più. A quel punto si sono toccati estremi poco sostenibili.
E com’è che i brand stanno correggendo queste aberrazioni, se non vogliono abbassare i prezzi?
L.S.: Credo che nel caso in cui la strategia e la visione del marchio fosse sbagliata, è giusto fare un reset, tagliare i prezzi e ripensare al posizionamento. E questo è quello che per esempio ha fatto Burberry sulla pelletteria. L'idea che potesse vendere delle borse con prezzi simili a quelli di Prada e di Gucci era sbagliata. Su quello devi fare retromarcia.
Negli altri casi si può, magari senza troppo rumore, tagliare l'assortimento e introdurre nuovi prodotti a prezzi più interessanti sfruttando tutto quello che è possibile sfruttare. Oppure facendo lanci in nuove categorie di prodotti, come il beauty, che si vende a dei prezzi molto bassi da un punto di vista assoluto.
Pensa che restringere l’influenza dei direttori creativi di cui parlava Luca De Meo in Kering possa essere un rischio?
L.S.: Credo che Luca abbia espresso un auspicio perché la verità è che alcuni marchi sono più legati alla moda e altri meno. Da Louis Vuitton le cose funzionano così da sempre. Gucci però, come Prada, è sempre stato più dipendente dalla moda. E una delle cose che noi abbiamo detto agli azionisti di Kering è che Gucci non funziona sul prodotto standardizzato.
La gente compra Gucci perché ha il giusto messaggio di marketing, la giusta comunicazione, il giusto prodotto. Gucci funziona quando è sopra le righe e i clienti lo stanno dimostrando e lo hanno dimostrato negli ultimi 30 anni. Quando hanno voluto fare diversamente, hanno avuto risultati disastrosi.
@nssmagazine Negli ultimi anni parlare di moda significa avere a che fare non solo con l’estetica o la storia del costume ma con la brand strategy. Se ai tempi della moda autoriale lo sviluppo di una strategia di branding era qualcosa di relativamente semplice, intuitivo e organico, oggi le difficoltà si sono evolute e ramificate. I brand ci parlano e ci persuadono non solo con il solo fascino della loro opulenza, ma anche con i sottointesi della loro comunicazione, i significati nascosti tra le righe delle show notes. Un complesso gioco a scacchi con la psiche di un consumatore sempre più astuto e disincantato che la scorsa fashion week, a Milano, ha aggiornato le sue regole. #milanfashionweek #fashionweek #mfw suono originale - nss magazine
Come mai certi direttori creativi di successo smettono di averlo quando cambiano brand?
L.S.: Io penso ai marchi come a degli animali. Ci sono giraffe, leoni, rinoceronti, gatti, pesci e via dicendo. Non è che tutti gli animali possono essere tutto, non è che tu prendi un cavallo, gli tiri il collo e diventa una giraffa. Se gli tiri il collo fino a farla diventare una giraffa lo ammazzi.
Il punto è ciascun marchio ha un suo DNA e il lavoro del direttore creativo è di cercare di spostarlo in modo graduale verso la prospettiva più interessante di mercato. Il motivo per cui alcuni di questi cambiamenti non hanno funzionato è perché sono stati estremi.
Ci si deve sempre domandare se quel direttore creativo ha senso per un certo marchio e lo porta nella direzione giusta. Se non lo fa, deve cambiare. Matthieu Blazy da Chanel, ad esempio, non è banale perché non fa la stessa cosa che faceva Lagerfeld ma che comunque è coerente con Chanel e lo rende ancora più interessante perché è diverso.
Se lei potesse di cambiare qualcosa nell'attuale scenario e fare ripartire il grande ingranaggio, qual è la prima cosa che farebbe?
L.S.: Guarderei alla creatività. I marchi sono interessanti agli occhi della gente perché producono delle belle cose. E quindi l'appeal del prodotto è l'80% del successo. Poi c'è tutto il marketing, la comunicazione e così via. Però se hai un prodotto che è interessante l’azienda va. Investire in creatività, cambiare creativi, mettere dentro delle nuove risorse è la strategia giusta. Non sono molto originale ma partirei da li.
Bisogna avere anche una leadership molto ispirata, molto dentro il prodotto, capace da un punto di vista di marketing. Poi cercherei di mettere in piedi un lavoro di squadra in cui il creativo non è lasciato da solo. Un creativo da solo non va da nessuna parte. È la collaborazione con il merchandising, che rende la creatività commercialmente efficace. Tutti noi guardiamo ad Alessandro Michele, per il successo di Gucci nel 2015. Ma quel successo è anche figlio in grandissima parte di Jacopo Venturini, che ha contribuito a strutturare la collezione e a metterla sul mercato, dove quei prezzi e quei prodotti avevano senso.
Credo che si tratti di essere veri, di fare qualcosa bene e ritornare su un percorso più sostenibile. Non tanto da un punto di vista ecologico ma da un punto di vista di storytelling. Dopo il Covid c’è stata una domanda assurda e alcuni hanno pensato che le cose sarebbero state sempre così. E credo che questa normalizzazione aiuterà l'industria a ritrovare la crescita.













































