
Il futuro della moda di fronte alla crisi del commercio mondiale
Come l’industria si prepara al “new world order” della guerra commerciale
18 Aprile 2025
Il commercio è sempre stato il sistema circolatorio della società umana – la sua esistenza è l’esistenza della vita stessa, così come lo sarebbe la sua assenza. Oggi il commercio mondiale è un capillare intrico di rapporti, di influenze, di quotazioni oltre che di una quantità di infinitesimali e titaniche parti mobili regolate e rappresentate insieme dagli andamenti dei mercati azionari e delle piazze d’affari. Negli ultimi quindici giorni o giù di lì, questo complesso meccanismo è stato sconquassato dall’amministrazione USA, il cui presidente, Donald Trump, ha prima imposto dazi su tutto il mondo tranne alla Russia, poi li ha sospesi per novanta giorni mantenendoli e moltiplicandoli (seppur con specifiche deroghe) per la Cina, la quale ha a sua volta risposto alle tariffe americane con controtariffe, esportazioni sospese e anche campagne psy-op su TikTok che hanno segnato l’inizio di una guerra commerciale che ora il mondo intero guarda col fiato sospeso. E mentre il primo ministro italiano, Giorgia Meloni, si è recato in America per negoziare con Trump, la presidente della Commissione Europea, Ursula Von Der Leyen, ha dichiarato in una lunga intervista al Die Zeit che «l'Occidente come lo conoscevamo non esiste più». Mentre le borse mondiali calano e la World Trade Organization stima che i dazi potrebbero ridurre il commercio mondiale fino a 1,5% quest’anno, l’Europa si trova sempre più schiacciata tra queste due superpotenze rivali – per non parlare delle ansie che la Russia e la loro propaganda e ingerenza nelle elezioni dell’Unione sta suscitando. Ma in un tale caos, che posto ha un’industria apparentemente frivola come la moda?
Se “frivola” è un termine forse eccessiva, sicuramente si può definire quella della moda l’industria più voluttuaria e “discrezionale” di tutte. Eppure questa industria, che vende sogni insieme a vestiti e borsette, rappresenta un giro d’affari di 1,79 trilioni di dollari oltre che un capitale culturale enorme per la società. Data la sua relativa fragilità, oltre che la sua dipendenza da delicati scambi internazionali e la vicinanza che ha con il potere, si trova come tante altre colta nel fuoco incrociato di un commercio globale improvvisamente diventato più difficoltoso e confusionario che mai. Dal Bangladesh alle coste del Guangdong, dai deserti cileni fino ai salons de couture parigini, passando per le fabbriche italiane e le grandi corporazioni svedesi e spagnole, il grande network della moda non solo avvolge il mondo intero ma riguarda il mondo intero. Al momento, la sensazione dominante rimane quella dell’incertezza: le azioni crollano all’annuncio di nuovi dazi e si risollevano alla loro rimozione, ma sul futuro a medio-lungo termine non si capisce nulla. E per la moda di lusso europea, con le sue azioni quotate in borsa, i suoi prezzi alle stelle, i suoi scandali e la sua rincorsa ai risultati trimestrali, l’incertezza è un veleno terribile. «Il settore moda è sempre stato soggetto a dazi per le importazioni negli USA», ci ha spiegato un analista che ha preferito restare anonimo. «Anche i prezzi al consumatore hanno sempre riflesso questi dazi. L’aggiunta del +10%, per ora, complica un po’ le cose - per cui ritengo che il settore moda sia una vittima primaria, soprattutto per il mercato del lusso». Un altro dei nostri intervistati, specializzato in logistica, ci ha detto che i principali attori sul mercato sono in un momento di attesa: «In realtà il tempo è ancora poco per capire un comportamento chiaro delle aziende. Sicuramente ci sono state delle mosse di reazione», ci ha detto. «Molti, a mio avviso, stanno aspettando di capire quale sarà lo scenario di medio di lungo termine per poi effettuare delle scelte di più lungo periodo».
Sports apparel brands such as Nike, Under Armour, and Lululemon face massive exposure to Trump's proposed tariffs
— Lev Akabas (@LevAkabas) April 10, 2025
Most of these companies' suppliers are located in East Asia, with the largest share of factories in China pic.twitter.com/GTheirQ203
@dailymail Fast fashion giants Temu and Shein are raising prices amid Trump's reciprocal tariffs. Temu, which is owned by the Chinese e-commerce company PDD Holdings, and Shein, which is now based in Singapore, announced to customers that operating expenses have gone up 'due to recent changes in global trade rules and tariffs.' Read the full story on DailyMail.com. Link in bio. Reuters #news #politics #tariffs #trump #shein #temu Sad song by piano and violin(886018) - NOVA
Dal punto di vista europeo, invece, la situazione sembra difficile ma sotto controllo. Per il nostro esperto di logistica ad esempio «il costo per l'imposizione dei dazi sul mercato dell'hard luxury, quindi il vero lusso, non influenzerà, nel breve e anche nel medio termine, il comportamento di un cliente veramente facoltoso», andando piuttosto a colpire la «fascia bassa della clientela di lusso», ovvero i clienti aspirazionali. Per l’analista invece «dobbiamo aspettarci delle riduzioni di volumi legate all’inevitabile aumento dei prezzi. Questo incentiverà la ricerca di nuovi mercati o il maggiore sviluppo di quelli esistenti non USA, quindi una positiva spinta commerciale, con l’uscita parziale dalla comfort zone americana». Le soluzioni temporanee che molti brand adotteranno sono quattro: «Aumento dei prezzi, ove possibile; richiesta sconti ai fornitori sulle stagioni in produzione; riduzione collezioni e del personale e l'inizio della procedura di "first sale" che permette il pagamento dei dazi sul costo industriale più alcune aggiunte minimali». Quanto all’andamento delle borse, «se i dazi resteranno al +10% non ci sarà un effetto valanga, ma bisogna aspettarsi delle perdite». Entrambi gli esperti paiono concordare che le aziende debbano ripensare le loro politiche di vendita e di pricing. In tal senso, per il lusso, «o vedremo una ripartenza del mercato parallelo o servirà un ripensamento dei costi e dei prezzi del prodotto», ci dice l’esperto di logistica. Secondo l’analista invece, «se i dazi restano 10% gli aumenti minimi prevedibili sui prezzi retail, per mantenere i margini, potrebbero essere dal 5 al 10%». In tal senso, sempre secondo l’analista, «il fast fashion e i brand di fascia media saranno molto più colpiti rispetto al lusso, che spesso potrà permettersi di assorbire parte delle perdite provenienti dai dazi e comunque si rivolge ad un consumatore con alta capacità di spending, fast fashion e brand medi molto meno».
Proprio qui sta il nodo della questione. Nel corso delle nostre conversazioni, gli intervistati europei hanno provato a leggere il caos delle tariffe come un’opportunità per la moda europea, che non ha una produzione negli USA, di «chiedersi se la politica commerciale seguita finora sia stata in realtà corretta. Abbiamo visto un incremento di prezzi al di là del valore intrinseco del bene che è cresciuto moltissimo. Quindi anche capire il posizionamento all'interno del mercato americano può essere uno spunto e un vantaggio a lungo termine». D’altro canto «ora che la clausola de minimis [che esenta dai dazi le spedizioni sotto gli 800 dollari, ndr] è stata rimossa, il fast fashion e in generale il Made in China saranno molto impattati e le vendite si contrarranno». Anche secondo il finance manager americano «i dazi stanno contribuendo, indirettamente, a un rallentamento del fast fashion». Per l’analista invece «il made in Europe è ancora molto forte per il lusso e sembra che stia riuscendo a contenere i danni per ora. Personalmente ritengo operazioni di rilocalizzazione dalle aree asiatiche impossibili, se non per piccole porzioni. Se la musica non cambia, per molti brand, inclusi quelli americani, saranno dolori. Secondo me è qui il vero problema». Tornando sul punto delle policy commerciali, l’esperto di logistica aggiunge che «la riduzione dei volumi da parte del lusso è stata compensato da un aumento dei prezzi. Questa cosa in realtà ha drogato il mercato. La nuova sensibilità su quello che è lusso dovrà portare necessariamente a un ripensamento dei prezzi. La salvaguardia del margine non riguarda il singolo prodotto ma la marginalità dell'azienda» specialmente se si vuole accedere al segmento aspirazionale. È chiaro però che limitare il fast fashion è una buona soluzione contro fenomeni sociali come il sovraconsumo (Temu e Shein ad esempio hanno già alzato i propri prezzi in America) ma allo stesso tempo la strada per arrivare al paradiso della moda lenta e sostenibile, che produce e vende secondo ritmi più lenti e con meno inquinamento, è lastricata di fabbriche chiuse, licenziamenti, minore disponibilità dei prodotti.
Europeans, as US tariffs force them to rely exclusively on German cars, French wine and Italian fashionpic.twitter.com/5wipTmZTVz
Ma cosa succede ai brand americani? «I brand più piccoli, con supply chain concentrate in Cina, sono i più esposti. Se la tua fabbrica è tutta lì, con i dazi al 245%, sei spalle al muro», dice il finance manager americano. «Chi ha già investito nella produzione locale oggi è più competitivo: tempi più rapidi, controllo qualità, e un messaggio forte per il consumatore». Non di meno serve cautela nel considerare un rinascimento del Made in USA: «Molti pensano che basti volerlo per riportare tutto in patria. La verità è che ci mancano le fabbriche, i macchinari, e soprattutto le persone con le competenze giuste. Fare tutto in America è bello sulla carta, ma anche qui si dipende da fornitori esteri. Se il filato arriva dal Pakistan, anche il ‘Made in USA’ ha le sue vulnerabilità. Il ‘Made in USA’ funziona quando è autenticità, non retorica patriottica», prosegue. Un esempio di Made in USA autentico che ci fa è la fabbrica Cone Denim Mills o il brand Camber USA la cui produzione, però, è estremamente settoriale e sicuramente non pronta per un enorme consumo di massa ai medesimi prezzi.
@shiftfashiongroup Your clothes are about to get EXPENSIVE. #fashion #clothing #tariffs #news #garments #manufacturing original sound - Shift Fashion Group
Infatti, ci dice, «produrre negli USA spesso significa lavorare con impianti meno automatizzati e con cicli più brevi. Questo comporta più variabilità e pressione sui controlli qualità, che molte aziende non sono strutturate per gestire internamente». E per il momento, «parlare di reshoring totale è fuorviante. Il massimo che si può ottenere è un nearshoring parziale, magari con una fase finale negli USA per ottenere l’etichetta ‘Made in USA’. Ma la vera produzione rimane altrove, con tutto ciò che comporta». Secondo lui, se queste dinamiche proseguiranno (con una certa, pratica rassegnazione ci ha detto che «almeno con la Cina, i dazi non spariranno domani») si potrebbe verificare una «polarizzazione» nella moda americana che vedrà «da un lato i brand più piccoli cercare di diversificare solo la logistica, dall’altro quelli premium o di lusso internalizzare i costi e puntare sul valore del brand per giustificare prezzi più alti». Gli rimane, ovviamente, un barlume di patriottica speranza: «Questo potrebbe essere il momento in cui il settore moda USA dimostra che si può produrre in modo più vicino, più umano, e con un vero valore aggiunto. Ma servirà tempo e soprattutto visione a lungo termine».