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Perché alla moda serve la classe media

Non si vive di soli miliardari

 Perché alla moda serve la classe media Non si vive di soli miliardari

Il dato circola già da diversi anni, ma molti lo hanno notato solo quando Il Corriere della Sera lo ha riportato a inizio mese: ogni anno in Italia vengono trasferiti 200 miliardi di euro in ricchezza attraverso lasciti e testamenti, un primato in Europa. Ma è una storia che conosciamo tutti perché l’abbiamo vissuta: quasi ogni Millennial italiano tende spesso a stupirsi di come i propri nonni, ma anche i propri genitori, avessero mandato avanti una famiglia anche numerosa e comprato case con stipendi normali per ieri ma miseri per oggi. Quei bei tempi a cui pensiamo, e che corrispondono al trentennio che va dagli anni ’70 ai primi anni ’90, rappresentavano un momento in cui la classe media italiana era al suo apogeo – un momento che di base è terminato nel 2008 senza più tornare, portandoci oggi in un nuovo momento in cui il 5% delle famiglie possiede il 46% della ricchezza e il divario tra classi sociali è più vasto che mai, secondo un recente rapporto di OCSE ad esempio il 40% delle famiglie europee è finanziariamente vulnerabile. Non è così ovunque però. Secondo dati di Visual Capitalist riportati da Il Sole24 Ore 113 milioni di persone circa dovrebbero entrare a far parte della classe media nel 2024, l’81% dei quali vive in Asia: principalmente in India e in Cina, che rappresentano da sole il 57% del “blocco”, seguite da Indonesia e Bangladesh. In confronto, Europa e Nord-America forniranno appena 5 milioni di persone alla classe media nel corso dell’anno. In altre parole, la mobilità sociale in occidente è una barzelletta. Ma cosa importa di questo alla moda?

Caccia internazionale al cliente aspirazionale

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Per anni e anni la moda si è rivolta ai mega-ricchi di questo mondo, ma ha avuto bisogno della classe media. O, almeno, della fascia più elevata della classe media: quella che compra una borsa firmata per un’occasione speciale, che entra in una boutique per comprare una cintura, una t-shirt o un portafoglio e che, in generale, aspira alla vita dei milionari/miliardari senza esserlo. Queste vendite occasionali di prodotti, per così dire, meno impegnativi rappresentano in realtà un volume importante, la cui improvvisa assenza negli ultimi anni, dovuta sia all’innalzamento dei prezzi che allo spostamento della spesa verso le esperienze a sfavore dei beni di lusso, è pesata alquanto sui brand. Il che ha causato due reazioni dell’industria della moda: il primo è stato rivolgere tutte le proprie attenzioni ai pochi mega-ricchi rimasti che comprano con regolarità e senza soffermarsi troppo sul cartellino (secondo Bain, nel 2023, il 5% dei consumatori ha generato il 40% delle vendite di lusso) e il secondo è stato di inseguire la classe media svanita in Europa attraverso diversi mercati emergenti – la Cina, storicamente, ma adesso anche l’India dove l’avanzare di una nuova classe media, il cui volume passerà da 60 a 100 milioni di individui entro i prossimi tre anni, e uno spending che si aggirerà intorno ai 30 miliardi di euro entro il 2030. E forse è per questo che L Catterton, uno dei "bracci" di LVMH, ha annunciato oggi la nascita di una nuova joint venture con il magnate indiano Sanji Mehta per lavorare a investimenti nel paese.

Ma di recente anche l’Australia, e nello specifico la ricca regione mineraria e petrolifera che fa capo a Perth è diventata un nuovo polo attrattivo di investimenti del lusso. Non di meno, ciò è dato dal fatto che la classe più ricca è andata allargandosi, non la classe media. Secondo Tanya Tindall, general manager dell’azienda locale Kailis Jewelery, intervistata da BoF: «C'è sicuramente una bolla che non è stata colpita da problemi di crisi del costo della vita. Il cliente aspirazionale è quello che sta ancora lottando. Chi aspira a un pezzo in argento da 1.000 dollari acquista più difficilmente rispetto a chi vuole comprare una collana da 5.000-10.000 dollari». L’industria della moda dipende da questa clientela di classe medio alta. In India, la crescita della ricchezza individuale dovrebbe generare il cosiddetto “wealth effect” cioè quel fenomeno comportamentale per cui la percezione di agiatezza economica incoraggia la spesa creando cicli virtuosi ottimi per gli affari del lusso. Il cliente aspirazionale però (anche se in media più ricco del normale esponente della classe media dato che, in media, spende dai 3.000 ai 10.000 euro l’anno in articoli di lusso) è diventato un’entità sempre più multiforme che secondo una recente ricerca di McKinsey può avere un’età compresa tra i 20 e i 50 anni - anche se di norma è più maturo - ma esiste anche un 26% di consumatori sulla quarantina che spende una media di 3000 euro annui in articoli di lusso con attenzione. A prescindere dalla composizione di questo gruppo un po’ indefinibile ma dotato di potere di spesa, la sua importanza è un fatto stabilito: secondo McKinsey questi consumatori “medi” rappresentano il 18% delle vendite complessive del lusso – un giro d’affari da 273 miliardi di euro ogni anno.

Un lusso stanco che ha stancato

Dunque, di una classe media c’è ancora bisogno: se non per l’ormai infrequentabile mondo del lusso, almeno per tutti gli altri. Negli scorsi giorni, Diet Prada ha pubblicato su Instagram una dura condanna all’estrema esosità di oggetti di lusso come una borsa di paglia di Hermès di cui non si può decidere il colore da 10mila dollari, una eco-pelliccia di Saint Laurent da 15mila dollari e un paio di infradito di Chanel da quasi mille dollari – oltre al già famoso abito di seta di Chloé da oltre 26mila dollari. I commenti sotto al post sono rivelatori. La direttrice creativa di Nomadic Collector, Stefani Mitchell, ha scritto: «Ma è davvero di lusso? Se è ancora prodotto in serie, intendo dire se butta via quasi 7 miliardi di dollari di prodotti all'anno, se non paga i lavoratori? Le case originali erano di lusso, realizzate da artigiani e famiglie che facevano del loro mestiere parte della loro eredità. Quello di cui si discute qui è solo un prodotto di massa a prezzi eccessivi che utilizza i nomi di maestri morti da tempo e il marketing per ingannare i "consumatori". Il vero lusso è il caftano fatto a mano che si acquista in una bancarella di 100 anni fa nella medina di Fez durante un viaggio o il cheddar di piccole dimensioni proveniente dal nord dello Stato di New York. Il lusso significa conoscere le mani che lo hanno prodotto. La fonte è fondamentale».

Un altro signore norvegese invece ha scritto che i brand «hanno reso l’essere "aspirazionali" una cosa imbarazzante, per cui ora sostengo maggiormente i marchi di "lusso" locali»; sentimento riecheggiato dal modello e influencer Brett Staniland che ha aggiunto: «Sono anche stufo che i brand vendano scarpe a cifre oscene, quando i veri calzolai di Northampton, in Inghilterra, con marchi che hanno praticamente 200 anni, producono scarpe che dureranno per sempre, e su cui si basa la maggior parte di queste scarpe di moda, per un prezzo del 70% inferiore».

Un nuovo paradigma che emerge

Ma il cambiamento inizia ad arrivare (o a emergere, dato che è arrivato da tempo) anche nella moda vera e propria, dove sta sorgendo una nuova schiera di brand che vogliono vestire il pubblico senza fargli accendere un mutuo. Qualche mese fa, Jacob Gallagher di WSJ ha scritto un profilo del designer Todd Snyder che è passato da quattro milioni di dollari in vendite nel 2015 a cento milioni di dollari nel 2023 e che si sta anche espandendo con grande slancio. Nell’articolo si legge come questa espansione si basi proprio sul «centro sempre più vuoto del mercato dell'abbigliamento» popolato da «professionisti - banchieri, imprenditori tecnologici ed esperti del marketing - che cercano di essere migliori di Gap, ma non ostentati (o costosi) come Gucci». Evidenziando come Snyder si sia posto come offerta commerciale prestigiosa e capace di generare fedeltà ma rendendosi accessibile a un tipo di clientela che, se si trattasse dell’Italia, si estenderebbe ben oltre i consumatori di lusso metropolitani arrivando ai ricchi borghesi delle province che, come numero e potere di spesa, sono perfettamente in grado di supportare il successo di un brand. In Italia conosciamo bene brand così, anche se li associamo più al semplice abbigliamento che alla moda: Pinko per esempio ha chiuso il 2022 con 285 milioni di euro di ricavi e prevedeva, l’anno scorso, di chiudere il 2023 con 330 milioni mentre Fabiana Filippi, oggi presente in oltre 30 paesi con 1300 Multibrand e 48 negozi monomarca, ha chiuso il 2022 con più di 71 milioni di fatturato - insomma, il mondo dei brand middle class esiste già deve soltanto dotarsi di estetiche e narrative distintive un po’ come da decenni fa Stussy, che dovrebbe essere il metro di paragone per il successo di questi brand.

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Tutto indica che il nuovo lusso (almeno, per chi vive al di fuori dell’1% e non compra articoli di lusso di seconda mano) sarà sempre più rappresentato da una schiera di brand che crescono a ritmo esponenziale dopo aver adottato gli ex-prezzi del lusso: Our Legacy, il cui volume d’affari si è triplicato in quattro anni e totalizzerà, secondo le stime, 40 milioni di euro in vendite solo nella prima metà del 2024, costa in media la metà o meno della metà di un brand di lusso tradizionale oggi; lo stesso si dica di Charles Jeffrey Loverboy o Heliot Emil che firmano collaborazioni, sfilano e manifestano una vitalità e attualità che il lusso normale ha da tempo dimenticato con prezzi accessibili per un cliente di fascia medio-alta ma mai assurdi e impensabili come quelli di Hermès; durante la scorsa Milan Fashion Week maschile infine, Chaz Jordan, già fondatore di Ih Nom Uh Nit, ha lanciato 1989 Studio, un brand che nasce con l’idea di «portare prodotti di alto livello a un consumatore che è più attento ai prezzi». Ecco come Jordan ha parlato della sua decisione di rendere più accessibili i propri prodotti: «Il sentimento è questo già da qualche tempo. Ai clienti non interessava il prezzo finchè era associato a un nome o a un brand. Ma ora che le maison hanno perso quella particolarità, quella creatività, i consumatori si sono concentrati su altri prodotti che li possano toccare sul piano individuale. E penso che avere prezzi accessibili sia un bonus perché il vecchio cliente del lusso sta cercando nuovi brand. […] Parliamo a chi riconosce il lusso in termini di stile, di esecuzione, di presentazione ma la rendiamo accessibile per chi aspira ad averla».