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Il nuovo sogno americano è Made in China? Tra hard power e soft power, la Cina si riprende il suo potere

In mandarino, il nome con cui la Cina si definisce è 中国, letto Zhōngguó, che tradotto letteralmente significa “terra centrale”. Una scelta linguistica che suona quasi come una profezia autoavverante. Perché, a conti fatti, la Cina è davvero diventata il Paese più “centrale” del mondo. Centrale non solo sul piano economico e tecnologico, grazie a un’espansione costante che ha progressivamente eroso la supremazia industriale degli Stati Uniti, ma anche in quello che viene definito soft power, quello che fa di una nazione un’egemonia culturale.

Quando si parla di soft power, si fa riferimento alle arti liberali, ai media e a tutti quei prodotti culturali che, come cittadini di un mondo ultra-globalizzato, consumiamo quotidianamente. Per decenni gli Stati Uniti hanno dettato le regole della cultura internazionale, dal cinema alla musica, dalla hall of fame hollywoodiana ai panini del McDonald's, fino alla costruzione di un immaginario condiviso così pervasivo da far conoscere a chiunque nel mondo le proprie icone. Come spiegava Pierre Bourdieu con il concetto di capitale culturale, «la cultura non è mai solo un terreno di piacere o di espressione, ma anche un campo di potere, dove si gioca la definizione di ciò che è normale, desiderabile e universale»

Negli ultimi dieci anni, però, anche a causa della presidenza di Donald Trump, quella fantasia collettiva degli anni ’90 e dei primi 2000 legata al sogno americano ha iniziato a dissolversi, o quantomeno a spostarsi verso la Cina. Statista riporta che nel 2024 la Cina ha accolto circa 26,9 milioni di visitatori stranieri, con un incremento del 96% rispetto al 2023, un dato che testimonia l’apertura e l’attrattiva crescente del Paese. Ora non si parla più del Giorno del Ringraziamento o del Super Bowl, ma di moon cake e Capodanno cinese

La questione della fuga di cervelli

@tolovealittle #ishowspeed #china #livinginchina original sound - Tolovealittle

Per oltre trent’anni, la direzione della fuga di cervelli è stata chiara: dalla Cina verso l’Occidente. Giovani ricercatori, ingegneri e accademici partivano in massa per gli Stati Uniti, simbolo di libertà intellettuale e di opportunità economiche. Oggi, però, la rotta sembra essersi invertita. Mentre l’America attraversa una fase di incertezza politica e sociale, e la promessa del “sogno americano” si indebolisce, sempre più persone guardano alla Cina come a una destinazione professionale e culturale credibile, capace di unire crescita economica e stabilità. 

A dimostrare questo cambio di paradigma è il recente visto K, lanciato dal governo cinese per attrarre talenti stranieri nei campi della scienza e della tecnologia. Secondo Al Jazeera, il programma, annunciato dal Consiglio di Stato e operativo da settembre, ha l’obiettivo di “promuovere scambi e cooperazione” tra esperti STEM di tutto il mondo. Il Ministero degli Esteri ha sottolineato come questa misura si inserisca in una strategia più ampia di riforme, che include procedure di visto semplificate e una nuova carta di residenza permanente per i professionisti internazionali.

Come ha dichiarato Zhigang Tao, professore di economia alla Cheung Kong Graduate School of Business di Pechino, «dagli anni Ottanta ai Duemiladieci la Cina ha perso talenti verso i Paesi sviluppati come gli Stati Uniti. Ora il compito è trattenere quelli locali e attirare nuovi cervelli globali». Un messaggio che evidenzia come Pechino non punti solo alla competitività economica, ma anche a una forma di egemonia culturale fondata sull’innovazione e sull’immaginario.

Shanghai è la nuova New York?

Allo stesso tempo, mentre la Silicon Valley perde parte del suo appeal e il sistema universitario americano diventa sempre più costoso e polarizzato, con le scuole delle Ivy League costantemente attaccate dall’amministrazione Trump, Shanghai, Pechino e Shenzhen si impongono come nuovi poli di attrazione per le industrie creative e tecnologiche. In particolare, Shanghai sembra incarnare al meglio questa trasformazione: una città che unisce ambizione economica, dinamismo culturale e una visione cosmopolita sempre più vicina a quella che, per decenni, è stata l’identità di New York. D’altronde metropoli per antonomasia, la città cinese è da secoli cavalcavia di culture, non solo un centro finanziario, ma un luogo dove si definiscono i nuovi codici estetici e creativi dell’Asia contemporanea.

A dimostrarlo non solo c’è la sconvolgente notizia di Kim Jones come direttore creativo di Bosideng, ma la Shanghai Fashion Week, la cui edizione SS 2026 si è tenuta dal 9 al 16 ottobre, rappresenta perfettamente questa evoluzione. Come sottolineato da Vogue Business, il calendario ha incluso oltre cento sfilate, con un numero crescente di brand internazionali accanto ai nomi locali che celebrano i propri anniversari. 

Se negli anni ’90 New York era considerata la capitale della moda più audace, animata da una generazione di creativi come Marc Jacobs, Anna Sui e Isaac Mizrahi che sfidavano la rigidità delle altre città, oggi la stessa energia sembra essersi spostata a Shanghai. Designer come Mark Gong, Shushu/Tong e AO YES stanno ridefinendo i confini tra estetica occidentale e sensibilità orientale, con collezioni che fondono ironia, romanticismo e critica sociale e che sembrano far apparire le fashion week principali obsolete. 

Ma ciò che distingue davvero questa nuova ondata è la scelta deliberata di restare a Shanghai, piuttosto che cercare legittimazione nei circuiti più “centrali” come Parigi o Milano. È una forma di indipendenza culturale e identitaria che segna una rivoluzione dove non è più necessario partire per essere riconosciuti, perché il centro dell’attenzione globale si è già spostato in casa. E se New York fatica ormai a reggere il confronto con Londra, Milano e Parigi, viene spontaneo chiedersi se, tra qualche anno, non sarà proprio Shanghai a prendere ufficialmente il suo posto.

Il percepito della Cina è cambiato (in meglio)

@digital.god You met me at a very Chinese time in my life #china #chiense original sound - Lionstowth

Oltre alla moda, anche sui social si percepisce il cambio di paradigma. «You met me at a very Chinese point of my life» è il nuovo trend che sta spopolando su TikTok, insieme a frasi come «everyone get more Chinese now» o «spiritually Chinese». Nessuna di queste espressioni ha una connotazione negativa: al contrario, indicano un rinnovato interesse degli occidentali verso la Cina, in netta controtendenza rispetto al sentimento dominante degli ultimi vent’anni, soprattutto negli Stati Uniti.

In un video essay pubblicato due anni fa e intitolato China Has a Soft Power Deficiency, la creator @aini spiegava come, rispetto a Corea del Sud e Giappone, la Cina non fosse ancora riuscita a trovare il proprio “cool factor”, ostacolata da una lunga propaganda sinofobica americana e dal successo innegabile del K-pop e degli anime, che avevano reso gli altri due Paesi fortemente desiderabili agli occhi dell’occidente. Oggi però il confronto non regge più.

L’evento catalizzatore è stato la diaspora digitale generata dal possibile ban di TikTok negli Stati Uniti tra fine 2024 ed inizio 2025, che ha spinto migliaia di utenti americani a rifugiarsi su Xiaohongshu (Rednote), dove molti si sono resi conto di quanto la loro percezione della Cina fosse stata plasmata da campagne mediatiche negative. Un tweet diventato virale all’apice della vicenda, a inizio anno, recitava: «Not only do I willingly give my data to China, but I also freely give my heart», totalizzando oltre 1,3 milioni di visualizzazioni e 57mila like.

Oggi la cultura pop cinese non solo è parte del discorso globale, ma lo guida. Dai drama romantici alle produzioni fantasy xianxia, fino ai videogiochi come Genshin Impact, la Cina sta ridefinendo i parametri del soft power: l’esempio più recente è quello dei Labubu, i piccoli personaggi creati da Kasing Lung e prodotti da Pop Mart, diventati nel giro di pochi mesi uno dei fenomeni culturali più virali dell’ultimo decennio. 

Se il sogno americano nasceva dal desiderio di libertà individuale, quello cinese, invece, nasce da una collettività che ha imparato a trasformare la propria cultura in linguaggio universale. E se fino a ieri era l’Occidente a dettare le regole del gusto globale, oggi il mondo sembra voler imparare il cinese. Forse è semplicemente arrivato il momento di adempiere al ruolo dettato dal proprio nome.