FUORIMODA REVIEWS – La prima piattaforma online per recensire i fashion show

FUORIMODA REVIEWS – La prima piattaforma online per recensire i fashion show

FUORIMODA REVIEWS – La prima piattaforma online per recensire i fashion show

FUORIMODA REVIEWS – La prima piattaforma online per recensire i fashion show

FUORIMODA REVIEWS – La prima piattaforma online per recensire i fashion show

FUORIMODA REVIEWS – La prima piattaforma online per recensire i fashion show

FUORIMODA REVIEWS – La prima piattaforma online per recensire i fashion show

FUORIMODA REVIEWS – La prima piattaforma online per recensire i fashion show

FUORIMODA REVIEWS – La prima piattaforma online per recensire i fashion show

FUORIMODA REVIEWS – La prima piattaforma online per recensire i fashion show

FUORIMODA REVIEWS – La prima piattaforma online per recensire i fashion show

FUORIMODA REVIEWS – La prima piattaforma online per recensire i fashion show

FUORIMODA REVIEWS – La prima piattaforma online per recensire i fashion show

FUORIMODA REVIEWS – La prima piattaforma online per recensire i fashion show

FUORIMODA REVIEWS – La prima piattaforma online per recensire i fashion show

FUORIMODA REVIEWS – La prima piattaforma online per recensire i fashion show

FUORIMODA REVIEWS – La prima piattaforma online per recensire i fashion show

FUORIMODA REVIEWS – La prima piattaforma online per recensire i fashion show

FUORIMODA REVIEWS – La prima piattaforma online per recensire i fashion show

FUORIMODA REVIEWS – La prima piattaforma online per recensire i fashion show

La crisi degli e-commerce di lusso è la crisi di tutta la moda Abbiamo chiesto agli insider del settore come poterlo salvare

Lo scorso settembre ha segnato uno spartiacque nel mondo del retail di lusso online con il fallimento di SSENSE, uno dei marketplace che fino a qualche anno fa prometteva di rivoluzionare il mondo del lusso e l’accessibilità della moda. Così non è stato. Annunciato alla fine del 2024 e culminato in un'istanza di bancarotta lo scorso anno, il tracollo di SSENSE, che adesso ha avviato un processo di ristrutturazione, non è solo una storia isolata di debiti schiaccianti e dazi doganali inaspettati, ma un campanello d'allarme per l'intero settore, colpito un po’ ovunque da una crisi dei consumi discrezionali (qualcuno arguirebbe che si tratta di una riorganizzazione dei pattern di spesa che penalizza la moda) durante la quale tanto i grandi brand quanto i principali e-commerce di lusso hanno visto crollare i giri d'affari e accumulare debiti trimestre dopo trimestre. Per anni, i principali attori del sistema moda hanno favorito la crescita rapida a scapito della sostenibilità finanziaria, in un mercato sempre più saturo di brand, sempre più inondato di prodotti ma soprattutto di brand che esigono un controllo totale sui canali di distribuzione. 

@girlintofashion From the Cutting Room Floor 55K scandal to Ssense collapsing under tariffs— fashion is cracking at every level. Prices up, jobs down..#workinginfashion #fashionindusrty #cuttingroomfloor #ssence original sound - Claire


La scorsa settimana, come spiegato da BoF, SSENSE risultava essere ancora in vendita nonostante avesse respinto un tentativo di cessione forzata. Il co-fondatore e CEO Rami Atallah aveva annunciato ai dipendenti il 17 settembre che lui e i suoi fratelli, Firas e Bassel, avrebbero partecipato come offerenti per acquistare l'azienda, seguendo le stesse regole degli altri potenziali acquirenti. La decisione sarà comunque presa dalla corte. Dopo aver ottenuto protezione fallimentare in Quebec per evitare la vendita da parte dei creditori, l’azienda ha ricevuto un finanziamento temporaneo di 40 milioni di dollari per cercare fondi esterni e saldare i debiti. Le difficoltà finanziarie derivano dalle tariffe del 25-35% imposte dall'amministrazione Trump sulle importazioni canadesi e dalla chiusura di una scappatoia fiscale. Inoltre, l'azienda affronta una domanda in calo e la perdita di prodotti di marchi importanti. Nel 2024, Ssense ha generato 1,3 miliardi di dollari di vendite, scese a circa 900 milioni o 1 miliardo nel 2025 (con un calo del 28% nella prima metà dell'anno), con passività di circa 371 milioni di dollari. Atallah ha anche annunciato nuovi licenziamenti e un layoff temporaneo per alcuni dipendenti, senza obbligo immediato di liquidazione, con possibilità di reintegro o indennità in futuro.

«Il collasso di SSENSE è un chiaro segnale di quanto rapidamente il mercato della moda possa cambiare in tempi di incertezza», afferma Meital Shapira, Menswear Buyer at Printemps. «In passato, l’e-commerce prometteva convenienza, risparmio di tempo e prezzi più competitivi, spesso grazie alle esenzioni de minimis che rendevano gli acquisti online più economici rispetto a quelli locali. Oggi, invece, i consumatori devono affrontare tempi di spedizione più lunghi, costi imprevisti e tasse più elevate. Il rapporto tra valore e costo è cambiato, così come le aspettative dei clienti. Ma anche se i dazi e l’eliminazione delle esenzioni de minimis siano stati indicati come la causa del crollo di SSENSE, hanno agito solo come catalizzatori di una crisi più profonda». E proprio sulla complessa catena di cause e conseguenze che stanno scandendo una perturbazione sempre più acuta del mercato che abbiamo voluto indagare intervistando buyer ed esperti del settore multi-brand sia a livello italiano che europeo.

Un passo più lungo della gamba

Partendo dal particolare, il crollo di SSENSE è radicato in una combinazione di fattori interni ed esterni che hanno esposto le crepe del suo modello di business. Il marketplace aveva prosperato durante e dopo la pandemia, ma al finire del revenge spending sono emerse non poche criticità. I dazi introdotti da Trump, infine, hanno dato il colpo di grazia. Oltre a questi ultimi, ci ha detto Alina Flamel, founder di The Flamel, «credo che una delle principali cause del fallimento di SSENSE sia stato l’improvviso aumento dei prezzi da parte dei grandi marchi. […] I prezzi, che potevano aumentare gradualmente nell’arco di un decennio, sono stati alzati in pochi anni, allontanando i consumatori in modo più drastico. Questo è stato un fattore chiave che ha portato al fallimento di SSENSE e di altri multibrand negli ultimi due anni». Come Flamel ci fa notare, poi, i consumatori hanno iniziato a investire i propri risparmi verso esperienze come viaggi e ristoranti, accelerando un trend già in atto. «La moda oggi dovrebbe essere vista come parte integrante dell’industria dell’intrattenimento e non solo come un settore dei beni di consumo», conclude Flamel.

Ma le radici sono più profonde. Secondo la buyer di un noto multi-marca che ha preferito restare anonima, infatti, uno dei problemi di SSENSE era «una strategia di mark-down permanente e overbuying» insieme a «una selezione basata su prodotti non esclusivi ed un assortimento troppo ampio e ridondante». Inoltre, «la mancanza di una strategia a lungo termine da parte del top management, l'eccesso di acquisti, il sovrapprezzo e la carenza di innovazione nel mercato del lusso» hanno contribuito alla crisi secondo la buyer che conclude augurandosi «che il top management dei grandi gruppi prenda consapevolezza nella scelta di partner con cui collaborare in modo organico e sostenibile. Per i retailer, il crollo di SSENSE è positivo poiché non saranno costretti a praticare il price matching; anche se non dovrebbero ballare sul cadavere del nemico ma imparare dai suoi errori».

@kaileemckenzie_ the fashion industry needs a total overhaul #ssense #luisaviaroma #bankruptcy #fashionindustry #cuttingroomfloor #businessoffashion original sound - Kailee McKenzie


Per Manuel Marelli, buyer e creative director,  le cause della bancarotta di SSENSE «sono molteplici: un distacco crescente dal cliente reale, un’ossessione tossica per i numeri, marginalità inesistenti e una guerra al ribasso che ha eroso ogni valore». Un macro-problema a cui si aggiunge «una ricerca poco incisiva e un modello che, per quanto apparisse cool, era già superato. È il sintomo di un sistema che ha privilegiato la finanza al posto della sostanza». Meital Saphira di Printemps, poi, aggiunge che uno degli errori di SSENSE è stato «sfumare i confini tra esclusività e accessibilità posizionando marchi di lusso accanto a streetwear per la Gen Z, praticando al contempo sconti costanti. Il risultato è stato un sovraccarico di informazioni irrilevanti che ha confuso i clienti invece di guidarli». Questo tipo di problemi non riguardano solo SSENSE ma l’intero settore. Ricordiamo Farfetch, ceduta a Coupang nel 2023 per evitare la bancarotta, o Matchesfashion in liquidazione dopo l'acquisizione da Frasers Group. Ynap, svalutato di miliardi, è stato acquisito da Mytheresa nel 2024

SSENSE, con il suo focus su streetwear, ha amplificato questi problemi: prezzi gonfiati post-Covid, logistica complicata da dazi, e un consumatore alla caccia di sconti. «Purtroppo ad oggi il cliente, dati anche i prezzi in continuo aumento, è sempre alla caccia del prezzo scontato, quindi si è creata una sorta di guerra al ribasso», nota Alessio Aramini, Head of Buyer Man at Luisaviaroma. Il risultato lo abbiamo davanti agli occhi. Anche Francesco Tombolini, senior brand advisor il cui résumé include ruoli amministrativi presso Giglio.com, Yoox-Net-a-Porter, Armani e Gucci, descrive un settore che ha creato «una crescita orizzontale che ha creato più confusione di un IKEA nel weekend. I costi di gestione sono esplosi, la tesoreria è andata a rotoli». Espandendo l'ambito del ragionamento, queste cause rivelano pattern generali: l'e-commerce di lusso ha visto un'inversione dopo il Covid, con ricavi in calo e debiti in aumento. Solo eccezioni come Mytheresa, che ha acquisito Ynap con 555 milioni di cassa e zero debiti (contro i 5,3 miliardi del 2018), o Zalando con la fusione di About You per 1,1 miliardi, prosperano. Ma per SSENSE, tornando alle parole di Manuel Marelli, il fallimento è «un segnale chiaro: il sistema deve cambiare, e presto». Ma come?

L’impatto del crollo di SSENSE

Il caso SSENSE ha la potenzialità di creare un effetto domino. «I designer indipendenti perderanno la principale piattaforma per crescere rapidamente: SSENSE era spesso il primo a scoprirli e a tenerli costantemente in magazzino quando nessun altro multibrand lo faceva», spiega Alina Flamel. Senza questa piattaforma, la visibilità svanisce, e il mercato si contrae. La buyer milanese anonima concorda: «I designer indipendenti saranno penalizzati sia sul lato finanziario che di visibilità». Per i multi-brand retailers, l'impatto è ambivalente. Nel breve termine, guadagnano market share «ma dato che la credibilità complessiva del settore diminuisce, il guadagno sarà di breve durata. I consumatori tenderanno a preferire i marchi affermati rispetto a quelli emergenti, e questo influirà anche sulle loro scelte di acquisto. A mio avviso, la perdita maggiore in questo caso è di natura “culturale”», conclude Flamel. 

Un punto riecheggiato anche da Meital Shapira per cui «i rivenditori multimarca sono fondamentali per il settore, poiché consentono di scoprire nuovi marchi e creano un universo curato in cui i clienti possono muoversi fluidamente tra i diversi brand». Anche per Manuel Marelli la crisi di SSENSE «è la fotografia di una bolla ormai esplosa: numeri gonfiati e una guerra dei prezzi insostenibile. Per il lusso significa che il cliente di massa ha perso interesse e passione; per i designer indipendenti è un campanello d’allarme a guardare oltre il luccichio di effimere illusioni. Per il retail, infine, è il momento di ripensare il modello: più snello, intelligente e vicino alle reali esigenze del cliente finale».

Abbiamo bisogno di gente che comprende davvero l'evoluzione della società e della geopolitica economica - questi saranno i due ingredienti base del futuro del retail. Quando vedi dirigenti sessantenni che provano a decifrare TikTok come se fosse un codice Maya, capisci che il problema non è tecnologico, è antropologico». Alessio Aramini invece dice che «i brand di lusso oggi cercano di restringere il numero di clienti per avere maggior controllo sul mercato, sui prezzi e sulle scontistiche; i marketplace possono aumentare la visibilità, ma il marchio deve preservare l’esperienza e l’autenticità. Per distinguersi serve storytelling, servizi su misura, logistica di alta qualità e trasparenza».

Per Alina Flamel, invece, «la sfida del modello multimarca in generale è che rimane troppo concentrato esclusivamente sulle “cose”.  I consumatori vogliono un mondo di marchi completo in cui immergersi, non solo uno scaffale di prodotti. Il futuro della vendita al dettaglio multimarca deve includere partnership con ristoranti, strutture ricettive e marchi culturali, offrendo esperienze che estendono la moda allo stile di vita e all'intrattenimento». E le fa eco Marelli per cui servirebbero «realtà più specifiche, con una dimensione più umana. Serve una selezione personalizzata, non più macro e indifferenziata. È fondamentale conoscere davvero la propria customer base: capire chi ha lo spending reale e quale sia il target corretto per il proprio modello. Non è più tempo di rincorrere il volume, ma di costruire valore autentico e sostenibile».

Dal Boom al Declino

@designercommunity_ The luxury market just had its worst year in a while, with sales dropping by 18-20% in 2024 The main reason? China’s property crisis and economic slowdown have hit high-end spending hard. Even industry giants like LVMH (Louis Vuitton, Dior) have reported major sales slumps, especially in China. This could mark a ‘new normal’ for the luxury sector. What do you think? Are luxury brands in trouble, or is this just a temporary dip? #lvmh #louisvuitton #dior original sound - DesignerCommunity

Passando a un quadro ancora più generale, l'evoluzione del retail multibrand negli ultimi anni è stata una vera montagna russa: dal boom iniziale a metà degli anni ’10, in cui la moda divenne democratica e accessibile online, fino alla crisi pandemica, all’esplosiva ripresa e, adesso, a una contrazione che per molti potrebbe risultare fatale. Negli ultimi dieci o quindici anni «i brand di lusso si sono trasformati in veri e propri colossi grazie ai multibrand, rendendo accessibili sia gli store fisici sia l’ecommerce di prodotti una volta meno distribuiti e di nicchia», dice Alessio Aramini. Eppure, «oggi, però, sia i multibrand sia i marketplace affrontano una sfida: l’omologazione che deriva da un’accelerazione di acquisto uniforme tra i brand di lusso, che rischia di togliere parte dell’originalità e della personalità dell’esperienza di acquisto». 

Proprio Tombolini in effetti dipinge un quadro più caotico: «Post-Covid abbiamo assistito a una crescita digitale così esplosiva che sembrava di essere nel Far West: tutti sparavano, pochi miravano. [...] Parlare di "lusso" con assortimenti da 200-300 marchi è come dire di gestire un ristorante stellato con il menu della sagra paesana». Secondo Tombolini, solo circa trentacinque dei top brand («25 dei quali sono in mano a LVMH e Kering», specifica) gestivano il triplice canale composto da retail fisico, e-commerce proprio e multibrand esterni; altri brand di lusso hanno perso rilevanza o quote di mercato, o ci sono stati conflitti tra marketplace come nel caso di Cettire che acquista stock da terze parti “grige” per sconti aggressivi, erodendo prezzi e controllo esclusivo; oltre che alti costi di gestione e una tesoreria fuori controllo. «E ora tutti si guardano intorno chiedendosi: "Ma chi ha spento la musica?"».



Secondo Aramini il cambiamento ha coinvolto anche gli stessi consumatori che «oggi sono tornati alla ricerca del brand "originale", che offra marginalità più alte ai multibrand e, al cliente, quell'esclusività accessibile che ad oggi sta mancando. Credo che la chiave sia una collaborazione mirata tra brand di lusso e marketplace dove l'esperienza personalizzata e lanci esclusivi possano aiutare a convincere il consumatore». E in effetti anche Tombolini afferma di avere visto negozi fisici in Corea del Sud ma anche in Centro Europa «vendere il triplo di affermati multimarca milanesi. Perché? Hanno costruito assortimenti vicini ai loro consumatori». Per lui, il problema principale sta proprio in strategie approssimative su cui brand, consulenti e retailer si sono adagiati e che si sono risolti in un «conflitto di canale su tutti i fronti: brand contro multibrand, grandi e-commerce contro piccoli negozi, e tutti vendono allo stesso povero consumatore che ormai è più confuso di noi. La soluzione non è eliminare qualcuno dal gioco, ma smettere di trattare tutti i canali come se fossero cloni. Diversificare gli assortimenti non solo nei prodotti, ma anche nelle profondità. Rivoluzionario, vero?»

«Molti brand confondono la conoscenza del buyer con la conoscenza del mercato wholesale», prosegue Tombolini. «È come confondere saper guidare con saper riparare motori. I direttori commerciali dovrebbero tornare a girare in auto per le piazze invece di vivere in videoconferenza. Nel frattempo, i marketplace stanno facendo il lavoro sporco: girano negozio per negozio, piazza per piazza, per capire davvero il potenziale. La verità scomoda? Non conta se hai i marchi più fighi o il negozio più bello - oggi il differenziale lo fa il team». Ma i problemi vanno ancora più oltre: «I brand stanno dimostrando con alcune scellerate scelte distributive di non conoscere il mercato. Hanno alimentato il mercato parallelo e dato dei margini molto bassi a tanti commercianti, mettendo alcuni mercati in ginocchio. Molti marchi non capiscono che la logica del budget imposto non funziona più si deve capire il potenziale del proprio prodotto all'interno di questo assortimento di ogni singolo negozio». Per Tombolini, inoltre, «sarebbe opportuno sia coltivare una clientela locale che fornire prodotti più legati a ciascun Mercato. Ad esempio un prezzo pensato su Dubai non potrà mai essere un prezzo pensato per Milano o per Venezia».

Il futuro dei marketplace online nel retail di lusso, per Tombolini, è segnato da una nuova competizione tra negozi digitali e fisici. Secondo lui «i digitali stanno chiudendo come bar dopo il lockdown, mentre i fisici resistono». I brand, che hanno beneficiato a lungo dei partner digitali, non hanno ancora fatto un «mea culpa» per il loro ruolo nella crisi di questi ultimi: «È come invitare qualcuno a cena per mesi e poi sparire quando arriva il conto». Inoltre, la regolamentazione “de minimis” negli Stati Uniti, che limita le vendite cross-border esenti da dazi, cambierà drasticamente il panorama digitale. Tombolini suggerisce un ripensamento dei contratti: «Non più ordini stagionali, ma volumi annuali con piani di consegna e pagamento definiti», un modello simile a quello dei concessionari di orologi. Propone anche di investire nei «micro eventi locali», perché «un consumatore di Trani ha la stessa dignità di uno di Sankt Moritz».

E dunque su cosa scommettere?

Guardando alla prossima stagione, Tombolini identifica tre problemi epocali che influenzano le scelte dei marketplace: un «conflitto generazionale», con i grandi marchi che non attraggono più la Gen Alpha; una «rivoluzione geografica», con l’emergere di brand da mercati inaspettati; e una «AI-pocalisse», dove «tra tre anni molti marchi si venderanno grazie alla loro visibilità nei motori di intelligenza artificiale». Le ricerche si sposteranno dai motori tradizionali ai chatbot e ai modelli linguistici, rendendo obsolete le sfilate costose. I vincitori? «Marchi nordici, brand retail evoluti, label coreane», mentre i perdenti sono quelli ancorati a concetti superati di «lusso» e «aspirazionale». Per Tombolini, il successo non deriva più dal fare «il prodotto giusto», ma dal «saper costruire in anticipo il proprio consumatore», capendo «perché compra» attraverso «la referenzialità delle community e la trasversalità dei messaggi».

Per il futuro del settore, Tombolini auspica una «radicale rieducazione» per costruire relazioni solide tra brand e commercianti. Tombolini conclude con un invito a ripensare il concetto di agenzia: «Meno budget alle società di consulenza strategica che vivono nel 2010, più investimenti in chi sa davvero intermediare con i clienti del 2025». In un mercato in cui dire che qualcosa si compra «perché è bello» è «più superato dei Nokia 3310», il futuro del retail di lusso dipende dalla capacità di comprendere e costruire il consumatore, sfruttando community e strategie locali per creare connessioni autentiche e durature.