I brand possono trasformare il secondhand in un servizio? Ganni e Calvin Klein ci stanno provando
La moda costa davvero troppo e il secondhand invece costa poco. Ecco, in breve, perché chiunque non sia un milionario da questo lato del mondo, oggi, compra solo ed esclusivamente vintage e secondhand. Il fenomeno ormai coinvolge davvero tutti: persino su Vogue Business gli intervistati dichiarano senza problemi di comprare a tutto spiano su Vinted, così come fanno diversi influencer. Inserirsi in questa dinamica culturale è insomma l’unica strategia per non farsi travolgere. E proprio in questi giorni due brand hanno deciso di trasformare il secondhand in un servizio da offrire ai propri clienti: Ganni e Calvin Klein.
I progetti di Ganni e Calvin Klein
Da un lato, Ganni, il brand danese sinonimo di estetica scandinava cool e accessibile, ha stretto un'alleanza con Vestiaire Collective, per introdurre un servizio di trade-in dedicato. I clienti possono inviare i loro capi pre-loved direttamente sulla piattaforma, dove vengono autenticati e, una volta approvati, convertiti in una gift card del valore del pezzo più un bonus del 10%, con l'opzione di ritiro a domicilio in Regno Unito e Unione Europea. Questo approccio non solo premia l'utente con un credito immediato, eliminando l'attesa di una vendita, ma rafforza il legame con la community delle "Ganni Girl", già abituate a scambiare su Instagram, trasformando il second-hand in un'estensione naturale del lifestyle del brand.
Parallelamente, Calvin Klein ha presentato ieri Re-Calvin, un programma di take-back gratuito negli Stati Uniti, sviluppato in collaborazione con Trove, un marketplace, e Debrand, che si occupa di logistica circolare. Qui, i consumatori visitano un portale sul sito del brand per stampare un'etichetta di spedizione gratuita e inviare qualsiasi articolo di abbigliamento, calzature o accessori, inclusi capi intimi come reggiseni, costumi da bagno e biancheria, categoria spesso esclusa dai circuiti circolari. Una volta processati, i pezzi seguono un flusso tripartito: riuso attraverso donazioni o partner second-hand per gli items in buone condizioni; riciclo o downcycling in nuovi filati o materiali come isolanti per quelli non riutilizzabili; e, come ultima risorsa, conversione in energia da rifiuti. Un'email di follow-up, poi, dice a ciascun utente che fine ha fatto il proprio pacco.
Queste iniziative, di due brand così lontani sia per origine che per stazza e giro d’affari, sono diverse in spirito e in termini operativi (Ganni usa il credito per stimolare lo scambio di altri prodotti Ganni, Calvin Klein punta su un take-back) ma condividono un obiettivo comune: rendere la circolarità un servizio che esiste senza soluzione di continuità con il resto dell’ecosistema del brand, integrato nei touchpoint digitali dei siti e del retail e che va oltre il mero recupero per diventare uno stimolo all’engagement post-acquisto. E questo punto è importante dato che in tempi incerti come i nostri, il nuovo principio del marketing non è solo far spendere i clienti, ma farli affezionare.
Una novità prevedibile?
@cant__not “I want vintage to be accessible to people” A constant theme from sellers I speak to is how expensive second hand is becoming and what that means for consumers. I love that @vaultvintage_london makes an effort to offer vintage at different price points so it can be an option to someone who isn’t just after the hyped designer labels, but something made from quality materials, that can replace that fast fashion purchase & support an independent business Episode 70 In conversation with Kristina of Vault Vintage on 2000s fashion tv like Project Runway, Fashion Police, Top Model & Rachel Zoe. Selling her mom’s clothes as a teen, the magic of West London, having vintage at all price points, 1980s costume jewellery, Japanese designer Kori Joko and Australian designer Carla Zampatti, the interesting parts of sourcing, second hand being more accessible, quality over designer labels, what will AI do for fashion? & so much more <3 Link in bio to listen on Patreon #fashionpodcast #vintagefashion #balenciagacitybag #designervintage #archivefashion #shopindependent #shopsmall #shopvintage original sound - cant not
Se oggi siamo qui a parlare di secondhand è perché, come si diceva, la moda costa troppo. La cosa è pure peggiore in America, forse il più importante mercato per il lusso, dove le ormai famigerate tariffe di Trump hanno reso più costoso ogni singolo bottone, rendendo il discorso dei prezzi ancora più spinoso del solito. Allo stesso modo, dazi del 15% sulle importazioni dall'Unione Europea stanno colpendo i brand di lusso, già alle prese con la crisi delle vendite. Se si considera che i prezzi rialzati sono giunti in un momento di elevatissima esposizione mediatica per la moda, che ha generato un desiderio inappagabile per il 90% del mercato, si capisce perché il resale sia diventato importante come è diventato.
I numeri lo confermano con chiarezza. Secondo stime del Boston Consulting Group, il mercato globale del resale raggiungerà i 360 miliardi di dollari entro il 2030, crescendo a un ritmo triplo rispetto al retail tradizionale – un trend che, come dicevamo già l’anno scorso, vede il 74% dei brand senza programmi resale intenzionati a implementarli nei prossimi mesi. Lo scorso settembre, Maximilian Bittner di Vestiaire Collective diceva a WWD che i volumi di ordini da giugno ad agosto 2025 non hanno registrato il calo stagionale tipico, e le inserzioni vintage sono esplose del 220% negli ultimi cinque anni, mentre le ricerche per items storici sono quintuplicate.
ThredUp, leader nel resale USA, ha bilanci che dimostrano la salute smagliante del resale: nel primo trimestre 2025, i ricavi sono cresciuti del 10% a 71,3 milioni di dollari, con un +6% di buyer attivi (circa 1,37 milioni) e un balzo del 95% nei nuovi acquirenti, il più alto nella storia aziendale. Le perdite si sono ridotte a 5,2 milioni, e il CEO James Reinhart attribuisce parte di questa accelerazione alla chiusura delle esenzioni tariffarie per piccoli pacchi, che penalizza giganti come Shein senza toccare il vintage vero e proprio. Lo stesso è ciò che avviene pure in Europa ma la parte soprendente è che nello stesso articolo di WWD, l’analista di UBS Jay Sole ha stimato che ci siano fino a 200 miliardi di dollari di potenziale “merce” nei guardaroba americani. Un giro d’affari di scioccante ampiezza.
Ma si può veramente fare?
Integrare resale e circolarità come servizio non è solo una risposta alle vendite in calo, ma un'opportunità per ridisegnare il business model della moda. Tra i vantaggi c’è di sicuro, come si diceva, il rafforzamento della fedeltà al brand: programmi come quello di Ganni monetizzano letteralmente l'engagement, convertendo capi dismessi in una specie di valuta. Un approccio community-driven che, oltre a estendere il lifecycle dei prodotti, educa i consumatori alla responsabilità. Sul lato economico molti si sono già lanciati: lo scorso maggio ad esempio ThredUp ha dichiarato di voler rendere accessibile a terze parti (e cioè brand o retailer) la propria tecnologia per la gestione del sito web e della logistica: le aziende possono monetizzare con gli invenduti nei magazzini e con i resi dei clienti.
In Giappone, di recente, il governo si è resto conto di quest’opportunità economica e ha parlato di nuove linee guida che intende implementare entro l’anno prossimo per portare il giro d’affari del mercato secondhand dagli attuali 50 trilioni di yen a 80 trilioni nel 2030. Queste iniziative, come si vede, sono più motivate da ragioni di ordine pratico che ideologico: se in effetti è vero che la sostenibilità non è un fattore determinante per incrementare le vendite di un brand, è ancora più vero che il problema della merce invenduta, del come spacciarla con discrezione provando anche a catturare nuove fasce di mercato. In realtà per alcuni versi è già così: nel 2024, Reuters riportava che il 50% dei profitti di Burberry e il 30% delle vendite proveniva da 56 outlet in giro per il mondo. Se tutto quell’invenduto finisse su Vinted o altre piattaforme potrebbe fruttare ottime cifre.
Btw it’s very easy to find secondhand designer clothes that are more affordable than fast fashion brands… being tacky and wasteful is a choice pic.twitter.com/0X1nfFh2Yr
— pms princess (@princxssmaddie) June 28, 2025
Però, questi approcci portano con sé rischi. Il primo è la "cannibalizzazione", ovvero il pericolo che le vendite di capi usati "mangino" quelle dei prodotti nuovi: se i consumatori preferiscono il second-hand perché più economico, i marchi potrebbero perdere profitti. Un altro ostacolo è la scalabilità operativa: organizzare il ritiro di capi da vari marchi, verificarne l'autenticità (essenziale per il lusso, per evitare falsi) e smistare la logistica richiede strumenti tecnologici solidi. Senza alleanze forti con partner affidabili, però, questi programmi crollano. C'è poi il rischio del "second-hand veloce", una sorta di fast-fashion rivisitato: piattaforme che velocizzano il ciclo di compravendita, con capi di basso valore e un'offerta satura, invece di puntare su qualità e durata nel tempo, riproducendo gli stessi difetti del modello tradizionale.
Infine, la carenza di forniture: gli armadi delle persone sono pieni, ma molti esitano a cedere i loro vestiti; i marchi devono inventare incentivi creativi, altrimenti rischiano vuoti di scorta che bloccano la crescita. In definitiva, il resale e la circolarità non sono mode passeggere, ma veri servizi che, se guidati con intelligenza, possono rivitalizzare l'intera industria della moda: da potenziale minaccia per l'economia a partner affidabile per un domani più resistente, dove il valore di un capo non si esaurisce con l'acquisto, ma continua a rigenerarsi e a mantenere vivo il dialogo tra brand e pubblico.