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Il secondhand sta per diventare il nuovo fast fashion?

Anche l’antidoto della circolarità ha i suoi effetti collaterali

Il secondhand sta per diventare il nuovo fast fashion? Anche l’antidoto della circolarità ha i suoi effetti collaterali

Quando il concetto di moda secondhand si è affacciato sulla coscienza collettiva del pubblico, è parsa l’alba di una nuova era. Il thrifting, pratica da sempre esistente ma considerata per natura inferiore allo shopping in negozio, è stato riscattato oltre che riletto come antidoto circolare a una civiltà dei consumi sempre più famelica e sfrenata. Nello specifico, l’opinione generale era che una maggiore circolarità degli abiti, acquistati e poi rivenduti attraverso mezzo mondo, potesse allungarne la vita, rendendo al contempo la moda più democratica. Tutte aspettative che, però, si sono realizzate a metà: se è vero che il boom del mercato secondhand ha generato una mentalità più responsabile per molti consumatori, è anche vero che la disponibilità di abiti usati a prezzi più bassi ha finito per alimentare il consumismo del pubblico che ha finito per comprare e vendere quantità sempre più enormi di abiti. Secondo un recente report di ThredUp, per esempio, non solo il mercato secondhand sta crescendo a una velocità tripla di quello dell’abbigliamento di prima mano, con un giro di affari che dagli attuali 35 miliardi di dollari arriverà a toccare gli 81 miliardi in quattro anni, ma anche che nei prossimi dieci anni il secondhand potrebbe raddoppiare il proprio giro d’affari, finendo per “colonizzare” il resto di un mercato in cui il noleggio di abiti e il fast fashion resteranno stabili mentre i grandi magazzini e i retailer generalisti di fascia medio-bassa perderanno progressivamente terreno.

Secondo un simile report di The Real Real, oltre che ai motivi di convenienza economica, il successo delle piattaforme di resell si basa su «la promessa di una serie infinita di immagini che innescano rilasci di serotonina e di una gamification dell’esperienza basata sul brivido della ricerca». In altre parole, grazie alle nuove piattaforme digitali, compare moda di seconda mano è diventato un piacere vizioso, simile alla dipendenza, come quello che deriva dal giocare a Candy Crush. Sempre nel report di The Real Real si legge che «dall'inizio della pandemia, più del doppio degli articoli originariamente acquistati su TRR sono stati rivenduti su TRR, a dimostrazione del fatto che lo shopping per vendere (e la vendita per fare acquisti) sta diventando un modo sempre più popolare di ridurre il proprio impatto ambientale». Dato che è in sé positivo ma che dimostra come la compravendita di moda secondhand online ha superato di gran lunga i confini del piacere e della necessità trasformandosi in una nuova forma di consumo semi-compulsivo. Un segnale positivo, comunque, viene identificato dal direttore della sostenibilità di The Real Real, James Rogers, nella crescente consapevolezza del pubblico: 

«Non è possibile far ricircolare il fast fashion di scarsa qualità. Il vantaggio del resale di lusso è che gli articoli di lusso sono creati con maestria e materiali di qualità superiore, il che conferisce loro una vita più lunga. Non solo sempre più acquirenti lo riconoscono, ma sempre più spesso li rivendono».

Al di là dell’impatto ambientale di un tale volume di vendite, che nel caso del secondhand aiuta a risparmiare sullo spreco di acqua e di emissioni di anidride carbonica, il dubbio sollevato dalla lettura di questi dati riguarda le abitudini di acquisto della Gen Z che, secondo quanto detto a Forbes da Neil Saunders, managing director di GlobalData Retail, «ha dimostrato al mondo di avere a cuore il pianeta più di qualsiasi altra generazione, ma è inondata da opzioni di acquisto che rendono più facile che mai il consumo dissennato. Con un consumatore Gen Z su tre che dichiara di sentirsi dipendente dal fast fashion, i nostri dati dimostrano la dicotomia che i giovani consumatori si trovano ad affrontare oggi». Il problema è dunque duplice: a fronte di un tale volume di compravendite, troviamo da un lato le nuove generazioni di consumatori ormai abituate all’overconsumption; dall’altro le aziende che, nonostante le nuove politiche sostenibili, rimangono legate all'overproduction. Come ha scritto su Vogue Business la giornalista Rachel Cernansky, insomma: «Sebbene la rivendita offra un percorso per prolungare la vita degli abiti usati, il modello non tiene conto di ciò che accade agli abiti quando vengono scartati, né garantisce che gli abiti siano prodotti in modo più sostenibile. Né ha alcuna influenza sui volumi di abiti nuovi prodotti o venduti sul nuovo mercato».