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Jacquemus e le sfide dei designer indipendenti

Il successo di uno testimonia la difficoltà di molti

Jacquemus e le sfide dei designer indipendenti Il successo di uno testimonia la difficoltà di molti

Durante una cerimonia tenutasi nella sua nuovissima sede a Parigi, Simon Porte Jacquemus è stato insignito del prestigioso titolo di Cavaliere dell'Ordine delle Arti e delle Lettere in riconoscimento dei suoi innovativi contributi all'industria della moda. All'evento, che si è svolto durante la Paris Fashion Week, hanno partecipato una lista di ospiti illustri tra cui Laetitia Casta, Carine Roitfeld e Amanda Lear, insieme ai familiari di Jacquemus. Anche nel suo intervento Anna Wintour ha reso omaggio all'ascesa non convenzionale di Jacquemus, elogiando il suo audace approccio alla moda e il suo impegno verso la propria community. Riflettendo sul notevole percorso di Jacquemus, Wintour ha ricordato con umorismo i suoi primi spettacoli di moda in stile guerrilla e ha celebrato la maturazione della sua estetica. «La storia di Simon è quella di un giovane che ha avviato il suo marchio sfidando le convenzioni, ascoltando i suoi amici e il suo cuore. Invece di entrare nel settore nel modo tradizionale, ottenendo un diploma, lavorando con un designer importante, è esploso sulla scena utilizzando tutto ciò che poteva per attirare l'attenzione», ha commentato Wintour, sintetizzando il lungo e notevole percorso di Jacquemus – che è alla fine dello scorso anno è anche entrato nella Top 10 dei brand più cercati di Lyst salendo dalla nona all’ottava posizione nell’ultimo report trimestrale del sito avendo esordito a inizio anno alla ventesima - un notevole balzo in avanti.

@jacquemus I don’t have words to express how I feel. MERCI (Yesterday, I was appointed "Chevalier De L'Ordre Des Arts Et Des Lettres" by #AnnaWintour snowfall - neheart & reidenshi

Nella classifica di Lyst relativa ai brand di moda più ricercati nel quarto trimestre del 2023 solo cinque dei brand in Top 20 erano indipendenti. Il primo di questi è Jacquemus in ottava posizione, seguito da Burberry alla nona, da Skims alla quattordicesima e da The Row e JW Anderson in diciottesima e diciannovesima posizione rispettivamente. Ma Jacquemus il brand che è avanzato più di tutti, iniziando l’anno in 19esima posizione ed entrando nella Top 10 come unico brand indipendente eccettuato Burberry. Un altro punto degno di nota: di tutti questi brand, Jacquemus è l’unico a essere un brand autenticamente “indie” e autofondato – eccetto The Row che è una new entry. I grandi brand indipendenti sono infatti aziende ormai storiche e dotate di un impianto economico e finanziario imponente, oltre che di un network di retail sparso in  tutto il mondo; JW Anderson ha il sostegno finanziario di LVMH che, nel 2013, acquisì una significativa quota di minoranza nel brand nel momento della nomina del fondatore Anderson a direttore creativo di Loewe; Skims invece ha ottenuto quest’estate una valutazione di 4 miliardi di dollari raccogliendo 270 milioni di dollari in finanziamenti e con la potenza mediatica di Kim Kardashian alle spalle. Ma perché, dunque, Jacquemus si erge praticamente da solo tra gli indipendenti di questa classifica? Come mai è riuscito ad avanzare più degli altri? E, infine, cosa racconta questo posizionamento dell’industria della moda di oggi?

Dato che Lyst include sempre le motivazioni di un certo posizionamento nella propria Top 20, è facile vedere come il successo del brand continui a basarsi, proprio come fu per il boom che ebbe durante il lockdown, sulle dive che lo indossano, sulle campagne, sugli show e campagne virali e, in breve, sulla cattura del momento social. Se gli altri brand “corporativizzati” segnano la firma di importanti ambassador sul mercato asiatico, il lancio di prodotti o il ritorno a questa o quella fashion week, Jacquemus è l’unico che sembra basarsi su una sorta di successo popolare indissolubilmente legato in primo luogo a campagne marketing ingegnosamente (e apparentemente) semplici e naif, al sostegno pubblico di qualunque celebrità pensabile e, infine, al carisma personale del designer e fondatore che, ricordiamolo, usa il profilo Instagram del brand come un'estensione del suo personale in un mix di velata thirst trap, sincerità e product placement.

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Non di meno, è opportuno notare che il brand venne fondato nel 2009, debuttò alla Paris Fashion Week nel 2012 e soltanto nel 2019, con lo show tra i campi di lavanda in Provenza, divenne una vera e propria (ancorché giovane) istituzione. Ciò che si legge tra le righe, però, è che proprio questo percorso lunghissimo iniziato oltre un decennio fa e un marketing instancabile, con tutti gli sforzi che esso comporta, rappresentano la formula di un successo che è sempre più complesso da raggiungere per i brand indipendenti. Se per anni si sono rincorse voci, ad esempio, sulle difficoltà finanziarie di brand di mega-successo come The Row, se The Attico ha dovuto attendere nove anni per calcare una passerella, se Raf Simons ha chiuso i battenti e, come dicono le voci di corridoio, Peter Do avrebbe dovuto affidarsi al backing finanziario di Fast Retailing che l’ha poi fatto direttore creativo di Helmut Lang, si capisce quanto in realtà l’industria della moda costituisca un ambiente inclemente, se non ostile, alla crescita dei brand indipendenti.

La lezione che Jacquemus ci insegna è relativa al business model. Per citare House of Cards: «Se non ti piace come è apparecchiata la tavola, cambia posto», ovvero per battere le logiche dell’industria della moda istituzionale bisogna in qualche modo saper operare al di fuori di essa e trovare nuovi modelli, magari anche basati su differenti concept produttivi e di retail. Ma un altro insegnamento che possiamo trarre dal successo di Jacquemus è quello del compromesso. L’anno scorso il brand ha rivelato di stare per raggiungerei 200 milioni di euro annui in revenue con l’obiettivo di arrivare al mezzo miliardo entro il 2025, confermando che una community e una base di clienti esiste ed è solida nonostante il brand abbia un’unica boutique monomarca a Parigi che doveva restare aperta per sei mesi ma è ancora in piena attività con davanti una perpetua fila di visitatori a ogni ora del giorno e diverse iniziative di pop-up. Questo successo, che si è propagato anche nel mondo delle celebrità, non ha trovato riscontro nel mondo notoriamente impervio dei fashion insiders che criticano il brand e le sue collezioni, la qualità dei suoi prodotti e i mille espedienti pubblicitari. Un tipo di atteggiamento che viene rivolto a numerosi brand indipendenti, specialmente in Europa, che da un lato vengono salutati come la nuova guardia che salverà la moda dal gorgo tardo-capitalista ma dall’altro vengono tacciati di banalità, scarsa qualità, sfruttamento di questa o quell’estetica creando il paradosso di designer amati esteriormente ma duramente criticati a parte.

Il compromesso sta proprio qui: tra esigenza commerciale e identità e visioni personali. Difficile capire chi abbia ragione in questa lotta: se da un lato molte critiche spesso hanno un fondamento, dall’altro è chiaro che un brand indipendente debba affermarsi come può – in fondo l’arbitro definitivo di un brand rimangono le vendite dato che con l’apprezzamento della critica non si pagano le bollette della luce. Ma la vera domanda è: se a Jacquemus è servito oltre un decennio e una grandissima fatica per approdare nella Top 9 dei brand più cercati, quale spazio possono trovare i brand indipendenti sotto l’oligopolio dei grandi conglomerati come LVMH o Kering? Ma soprattutto, si può arrivare a 200 milioni di euro in revenue annuali senza farsi qualche nemico?