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Aveva senso imbrattare l’albero di Gucci a Milano?

In realtà non molto, il brand comunque ha saputo dare una risposta corretta

Aveva senso imbrattare l’albero di Gucci a Milano?  In realtà non molto, il brand comunque ha saputo dare una risposta corretta

L’ultima polemica della fine del 2023 è stata forse anche la più pubblica: gli attivisti di Ultima Generazione hanno preso di mira l'albero di Natale realizzato da Gucci nella galleria Vittorio Emanuele II a Milano, definendolo un simbolo di lusso inaccettabile. Gli attivisti hanno imbrattato l'albero con vernice arancione, protestando contro «l’ostentazione e l’elevazione del lusso a simbolo di una città in cui gli studenti non possono pagarsi gli affitti. [...] Il mondo che ci vendono come raggiungibile, non lo è. Il sistema in cui viviamo non è sostenibile, né economicamente né ecologicamente» e chiedendo un «fondo di riparazione per i danni delle catastrofi climatiche». Gli attivisti hanno esposto uno striscione con la scritta "Fondi di riparazione", sottolineando la complicità delle multinazionali del lusso e del governo in un modello economico che favorisce una piccola élite. Hanno domandato quando il governo inizierà a occuparsi dei poveri anziché dei ricchi. Poco dopo, Gucci ha risposto, avendo scelto «di non intervenire e utilizzare l'incidente come spunto di riflessione collettiva. Da anni attiva nella promozione di un dialogo costruttivo, Gucci conferma così il proprio impegno a sensibilizzare la comunità attorno a questi temi, pur sottolineando che la responsabilità condivisa non dovrebbe mai tradursi in atti violenti o vandalici». A volte la soluzione più semplice è davvero  la più elegante. Ma chi ha ragione in questo caso?

@trulyinast da #milano è tutto signore e signori #climatechange #climateaction #guccitreemilano original sound - Athena Sota

Se la causa portata avanti dagli attivisti di Ultima Generazione è di assoluta e primaria importanza, e se da sempre quasi ogni forma di attivismo pubblico riguarda una qualche forma di shock tactic va detto che bersagliare Gucci e il suo albero si è dimostrato un gesto certamente visibile ma forse superficiale. In primo luogo perché mescola in maniera assai poco seria la sensibilizzazione al cambiamento climatico con un molto generico desiderio di rivalsa sociale, in un momento “caldo” in cui a causa della stagnazione economica che caratterizza la società italiana e nelle condizioni non proprio eccellenti della sua economia l’insofferenza verso la casta degli abbienti e dei potenti è davvero alle stelle. Il rischio è quello di creare un minestrone politico di istanze disparate (l'ambiente, le politiche economiche, il caro affitti di Milano, l'operato del sindaco) a cui la soluzione non è certamente un assegno in bianco da parte del governo. In secondo luogo perché gli attivisti stessi ignorano forse che Gucci nello specifico e Kering come società madre sono in realtà alquanto attenti alla sostenibilità: meglio sarebbe stato colpire con la vernice le molte vetrine di negozi fast fashion o comunque anche dei moltissimi brand che, proprio perché non di lusso, hanno una maggiore distribuzione e impronta ecologica. Nella lotta al cambiamento climatico, il vero cattivo non è la moda ma i vari Shein, Temu e compagnia cantante – si potrebbe quasi dire che la produzione di Gucci non si avvicina nemmeno agli spaventosi volumi globali e allo sconcertante livello di emissioni prodotto dai brand di fast fashion che riempiono le vetrine di tutto Corso Vittorio Emanuele II.

Infine, la protesta di Ultima Generazione non ha colto nel segno perché se si colpisce un certo bersaglio per sensazionalismo, si rimarrà sul livello del sensazionalismo: è vero che bisogna far parlare, ma una cosa è l’andamento dell’economia nazionale e un’altra sono le collaborazioni tra la municipalità di Milano (che, ricordiamolo, non è in grado di ridistribuire la ricchezza con una bacchetta magica) e i brand di moda che alimentano effettivamente l’economia della città, il suo traffico di turisti, i suoi export e anche il suo mercato del lavoro. Gli stessi "ricchi" che popolano le boutique di moda tanto odiate dai protestanti sono in larga parte stranieri. In questo senso, sarebbe stato più appropriato imbrattare un bersaglio dalla simbologia più “civica” dato che Gucci, oltre a essere un brand basato in Italia ma posseduto da un gruppo francese, quest’anno si era anche dedicato a fornire luminarie per le periferie della città, volendo appunto dimostrare di non pensare solo a meravigliare gli abitanti di Monte Napoleone e agendo in piena buona fede. Si potrebbe anche aggiungere che l’attivismo urlante e dimostrativo delle strade solo in pochi casi (e spesso anche a costo di degenerazioni violente) finisce per penetrare nelle alte camere della politica. Anche per conquistarsi l’attenzione e l’adesione del pubblico sarebbe forse meglio provare a interloquire con la società sulla base di un dialogo più serio, ponderato e razionale: siamo tutti preoccupati del clima, ma il primo ostacolo che ci impedisce di avviare una conversazione a riguardo è l’assurda faziosità che circonda l’argomento e che si consuma nel negazionismo ossessivo di una parte e nel performativismo un po’ vuoto dell’altra. Su Internet, questi attivisti parlano di "resistenza" come se ci fosse un invasore sul territorio nazionale: a chi stanno resistendo? Agli attempati partecipanti di una messa di Natale? Ai camionisti che ora saranno in ritardo per una strada bloccata? Alla guardia sottopagata di un museo a cui ora toccherà pulire la vernice? Senza dire, poi, che ripulire quella vernice causa uno spreco di molti litri d'acqua. Il brivido che questa resistenza sembra cercare è quello dell'iconoclastia - sintomo di una generazione che non si sente più a casa in questo mondo. E almeno su questo punto possiamo dire che la sensazione è condivisa. Ma i metodi semplicemente non funzionano.

L’esistenza stessa di proteste così accalorate e mirate a suscitare un facile scalpore è già il sintomo di un dialogo tra la piazza e il palazzo così difficile e irraggiungibile da avere bisogno di tali manifestazioni per essere realizzato. Un po' come riempire di messaggi qualcuno che non vuole risponderci sperando di infrangerne la pazienza. Non si ha fiducia nei canali ufficiali di comunicazione (e, francamente, come si fa ad avere fiducia in un sistema politico tanto lento, farraginoso e bizantino?) e nell’efficacia delle soluzioni intraprese e dunque ci si affida a queste plateali proteste sperando di attirare l’attenzione di regolatori che sono immersi in questioni infinitamente più speciose. Di recente,  uno di questi attivisti ha pure interrotto una messa di Natale - ma a che pro? Con quale risultato se non rendersi antipatico a tutti i presenti? Prestando anche il fianco a strumentalizzazioni della parte avversa che ora li potrà dipingere come dei seccatori, degli importuni privi di rispetto. Da un punto di vista meramente PR, non aiuta certo che queste manifestazioni siano colorate di un’emotività così spinta (chi si ricorda di Giorgia “Ecoansia” Vasaperna al Giffoni Film Festival?) che è il primo fattore nel creare sfiducia nella parte politica avversa che, ricordiamolo, andrebbe persuasa e non antagonizzata, presentandosi prima di tutto come una voce politica matura e anche aperta a un dialogo in cui si possa trovare un punto in comune. L'entusiasmo dei più giovani e dei politicamente attivi è qualcosa di prezioso ma servirebbe incanalare queste energie verso un approccio più autenticamente efficace e abbandonare picchetti e manifestazioni di strada che non solo portano a una maggiore chiusura da parte di chi dovrebbe ascoltare, ma inquadrano gli attivisti stessi in un atteggiamento caratterizzato da alcune pie illusioni su come dovrebbe andare il mondo. Ma se ci si continua a lamentare e sollevare polveroni non si supererà mai la fase della doglianza.

Proprio come la cattiva condotta di un adolescente difficile rappresenta un grido d’aiuto e dunque dovrebbe suscitare la preoccupazione e l’attenzione empatica di chi ne è responsabile, queste proteste segnalano al mondo politico di che tipo siano gli umori del pubblico. Chi è contro questo tipo di attivismo non dovrebbe chiudere le orecchie ma realizzare che esso è espressione di un disagio e di un problema che è reale, superando l’insofferenza e la desensibilizzazione causate anche dai media e dal loro ossessivo, martellante coverage volto proprio a strappare reazioni di rabbia o impazienza da parte di chi avverte la questione del cambiamento climatico con meno urgenza. La cosa diventa più preoccupante quando alla lotta per la buona causa si mescola anche l’astratto concetto di “lotta di classe” che è sì un modello di lettura degli eventi valido ma che non rende per nulla conto delle realistiche e assai complesse questioni geopolitiche, storiche ed economiche che caratterizzano l’andamento dell’economia italiana e globale. Questo senza menzionare come la soluzione proposta dagli attivisti siano dei “Fondi di Riparazione” ovvero un’ennesima forma di assistenzialismo o handout che funziona in base a una logica del rimborso che però non va a toccare le specificità di politiche economiche davvero difficoltose e complesse e che nessuno sembra pronto ad affrontare con precisa razionalità e piani realistici. A distanza di anni, non ci siamo ancora mossi dal «How dare you?» di Greta Thunberg. Si può facilmente vedere come le tattiche retoriche, prive di un autentico e strutturato piano politico, non diano altri risultati che rinnovata attenzione, ecoansia e insofferenza.

Più che di vernice su quadri e installazioni, e più di persone incollate al pavimento o all’asfalto, insomma, avremmo bisogno di figure politiche serie e preparate, o di movimenti politici (non solo giovanili) capaci di inserirsi nel dialogo delle potenze e avanzare proposte mature senza contro-intuitivi e autoindulgenti schiamazzi. Ma soprattutto avremmo bisogno di una cultura del dibattito pubblico meno faziosa e meno immersa nella condizione di post-verità che ormai definisce ogni forma di informazione pubblica.