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Il potere di una community: intervista a Luca Santeramo

Storia di 545 e di un ragazzo "normale"

«Non mi ritengo un designer, né ho mai dichiarato di esserlo. Non sono uno stilista o un creativo, non credo di essere nulla di tutto ciò»: basterebbe questa risposta per comprendere un po’ più a fondo Luca Santeramo, fondatore di fivefourfive (545). Tra i brand emergenti italiani è quello che più di ogni altro ha saputo compiere la complessa transizione da “creator-brand” a brand vero e proprio o, per dirlo nelle parole di Sante, «un lifestyle, perché oltre a vendere un prodotto voglio vendere un ecosistema di cose, non una maglietta ma l’idea di appartenere a una famiglia». E quella di 545 è una famiglia molto numerosa, a giudicare dai risultati ottenuti in pochissimi anni o dal riscontro che si ottiene osservando la maltitudine di ragazzi con una College Jacket del brand per le strade del centro delle grandi città il sabato pomeriggio. La stessa famiglia che fa camp out duranti i raduni o fuori dai pop up, un emblema tangibile dell’importanza delle community nella moda contemporanea, il più grande lascito della cultura streetwear per l’industria tutta.

«Ho sempre cercato di trasmettere una certa immagine di me. Non ho mai promosso fumo o alcol, tendo ad evitare le parolacce… piccolezze che hanno portato le 2000 persone accampate dalle 8 di sera del giorno prima dell’apertuna del nostro pop-up di Milano ad essere sempre ordinate e composte. È la volontà di comunicare una sorta di “codice comportamentale”, perché chi compra abbigliamento compra anche una storia», racconta Sante, che sull’idea stessa di educazione e di trasmissione di valori positivi ha costruito la sua intera immagine. Non c’è traccia della voglia di ribellione di Corteiz, né dello spirito pirata del primo Supreme o quello naive di Nude Projects (unico brand con cui 545 ha collaborato fino ad oggi). Ci sono persone che si rivedono nel lifestyle promosso da un ragazzo italiano di 27 anni che fa della normalità il suo punto di forza, che rifugge dagli stilemi classici della moda, tanto quanto l'idea canonica di brand: «ho creato una realtà che non ha mai avuto dietro grossi soldi o investimenti. Sono partito con il budget per 100 cappellini e 100 magliette e poi tutto si è evoluto rapidamente, senza che me ne accorgessi. Ora stiamo valutando di aprire uno spazio fisico, un luogo di ritrovo della community. Non un posto in cui vai a comprare una maglietta e torni a casa».

«Vendere lo streetwear all'America è una cosa totalmente controproducente. L’Italia tira, ne hanno una concezione quasi idilliaca, di un paese che si veste bene, che mangia bene e credo che parte del mio compito sia anche provare a raccontare quel modo di vivere, che è molto reale per me»

Fivefourfive nasce durante la pandemia, dalla volontà di Sante di mettere a frutto tanti anni di passione sfrenata per lo streetwear, epoca che ha vissuto nel suo momento di massima splendore, quando era semplice esserne ossessionati: «Durante il liceo i miei amici uscivano a prendersi un aperitivo mentre io ero a casa, a farmi foto tra le mensole, a ordinare i look per postarli su Instagram. Con l’arrivo della pandemia mi sono dovuto mettere davanti a uno specchio, pensare a cosa fare del mio futuro e capire che l'influencer marketing era qualcosa che magari poteva tirare, ma per quanto?». Trasforma allora il suo orario di posting, 5.45 pm, nel nome di quello che inizialmente era il suo merch e che si è rapidamente trasformato in un brand: «All'inizio i più compravano per me in quanto Sante, con il passare del tempo, con un approccio alla produzione più serio e Made in Italy, non dico che siamo riusciti a raggiungere un 50 e 50 tra chi compra per me e chi per il brand in sé, ma ci stiamo avvicinando. E questo per noi è un grande risultato». Parte della crescita, oltre alla dedizione, deriva da una certa narrativa di italianità che spopola negli States. «Vendere lo streetwear all'America è una cosa totalmente controproducente. L’Italia tira, ne hanno una concezione quasi idilliaca, di un paese che si veste bene, che mangia bene e credo che parte del mio compito sia anche provare a raccontare quel modo di vivere, che è molto reale per me» racconta Luca.

«Non sono mai stato un fan sfegatato di una certa idea di moda. Alle feste preferiscono una pizza con gli amici, che sono poi magari gli stessi con cui lavoro. Ora sto cercando di migliorare il mio work-life balance, concentrarmi sullo sport che è la mia più grande passione. Credo di non avere neanche il tempo per stare dietro al mondo della moda, e va benissimo così»

Quella di Luca Santeramo e di 545 è dopotutto una storia normale, di un ragazzo nato con il mito di Virgil Abloh e poi cresciuto, fino a diventare un vero e proprio imprenditore: «Molti decidono di dare licenza il brand per vivere sereni, prendono i soldi e fanno i direttori creativi. Io ho scelto di non farlo e mi rendo conto che da fuori sia difficile anche capire le preoccupazioni che fare impresa possa provocare, dalla logistica alla contabilità. Dietro ogni singola tee che viene commercializzata c’è un mondo, una 40ina di persone che ci ruotano attorno a vario titolo, persone che devono essere pagate e lavorare nella massima tranquillità». Quella di fivefourfive non è una scoperta, è il modo in cui lo streetstyle è uscito fuori dalla irripetibile bolla del 2017 ed è evoluto in qualcosa di più concreto, reale, e sostenibile. Direct to consumer, comunicazione attenta e coerenza che punta a l'immedesimazione in un intero lifestyle. In una scala chiaramente diversa è la stessa idea dietro Aime Leon Dore, Kith e diversi altri brand che hanno deciso, chi per scelta chi per necessità, di tentare strade alternative. 545 rifugge le idiosincrasie dell'industria della moda, viaggia in un universo più vicino a quello del suo consumatore tipo, che potrà anche essere giovane e di provincia, ma che proprio in quegli aggettivi ritrova orgoglio e senso di appartenenza: «non sono mai stato un fan sfegatato di una certa idea di moda. Alle feste preferiscono una pizza con gli amici, che sono poi magari gli stessi con cui lavoro. Ora sto cercando di migliorare il mio work-life balance, concentrarmi sullo sport che è la mia più grande passione. Credo di non avere neanche il tempo per stare dietro al mondo della moda, e va benissimo così».

Photographer Federico Gea
MUAH Edoardo Bacigalupi
Interview Francesco Abazia