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KAPITAL Japan: il punto d’incontro fra filosofia wabi-sabi e Americana

Quando la bellezza si nasconde nell’imperfezione

KAPITAL Japan: il punto d’incontro fra filosofia wabi-sabi e Americana Quando la bellezza si nasconde nell’imperfezione
Courtesy of @yourfashionarchive
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«Il denim. Questa è la mia filosofia». 

Queste furono le parole di Kazuhiro “Kiro” Hirata, creative director di Kapital, quando Noah Johnson lo intervistò per GQ lo scorso settembre. Una parola che esprime bene l’essenza di un brand che non conosce mezzi termini. Attualmente Kapital è diventato il non plus ultra di quel variegato universo che è il denim giapponese – universo che ha il suo centro nella città di Kojima, assurta a questo ruolo di grande importanza dopo che, con la diffusione fra i giovani della moda americana in seguito all’occupazione post-bellica degli USA in Giappone, le sue fabbriche tessili specializzate in uniformi e workwear si convertirono a fabbriche di denim per seguire la nuova opportunità di business, trovandosi in una coincidenza estetica unica fra materiali workwear e artigianato giapponese. Nello specifico, Kapital si distacca dagli altri produttori di denim per la sua edginess: un tipo estetica torturata e strutturalmente complessa, ma non priva di elementi pop, che ha attirato musicisti rock e hip-hop come A$AP Rocky, Kanye West, Travis Scott, Pharrell, Harry Styles e John Mayer, tra gli altri.

Lo scrittore e umorista David Sedaris descrisse con un’esagerazione tanto ironica quanto accurata l’estetica del brand in un essay pubblicato quattro anni fa sul The New Yorker:

«I vestiti che vendono sembrano essere stati già indossati da qualcun altro – qualcuno a cui hanno sparato o che hanno pugnalato e poi buttato giù da una barca. Ogni capo sembra prelevato dal banco delle prove di un processo per omicidio. […] La maggior parte degli abiti distressed sembra falso, ma per qualche motivo i loro no. […] Come fanno ad azzeccare così bene tagli e macchie? Se dovessi usare una parola per descrivere gli abiti di Kapital sarei indeciso fra “sbagliato” e “tragico”».

Per comprendere la qualità insita nello straordinario processo di distressing a cui vengono sottoposti i capi  di Kapital, bisogna sottolineare l’amore per l’estetica vintage che sta alla base del brand. Come Oliver Leone di @yourfashionarchive ha detto a nss magazine: «L’autentico amante del vintage apprezza caratteristiche come le sbiaditure, il logoramento e la stintura dei capi». Un mind-set che si rispecchia perfettamente nell’estetica giapponese del wabi-sabi – la bellezza di ciò che è imperfetto, asimmetrico ma anche vissuto e senza pretese.

Il brand nacque come prodotto dell’amore di Toshikiyo Hirata, padre di Kiro, per i jeans e gli abiti vintage americani – amore nato negli anni ’80, quando Hirata Sr. si trovava negli USA come istruttore di arti marziali. Al suo ritorno in Giappone, nel 1984, l’ex-istruttore di karate aprì Capital Ltd., l’attuale fabbrica di denim del brand, e un negozio di abiti vintage. Anni dopo, Kiro, figlio di Toshikiyo, seguì un percorso simile a quello del padre, andando a studiare arte negli Stati Uniti e innamorandosi allo stesso modo dell’estetica americana. Al suo ritorno Kiro lavorò per il brand 45R ma nel 2002 lo lasciò per tornare nell’azienda di famiglia e, dall’unione della sua sensibilità avant-garde con il preciso know-how artigianale di Hirata Sr., nacque l’attuale stile di Kapital.

Courtesy of @yourfashionarchive
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Gli abiti di Kapital richiamano la hippie culture (lo Smiley, ad esempio, è uno dei simboli ricorrenti del brand) ma lo fanno in una maniera assolutamente poco naif, esplorando piuttosto la sperimentalità e le frange più avant-garde della sua estetica e realizzando prodotti rovinati ad arte, del tutto privi di quella patina di wholesomeness che molti si attenderebbe da un brand globalmente diffuso e celebrato. Nel caso di Kapital, la mescolanza delle  controculture giovanili degli anni ‘50 e ‘80 produce un cultural clash, come lo definisce Kiro Hirata stesso, che è al centro stesso dello stile del brand. Non solo: il concetto di cultural clash è un elemento centrale di tutto lo streetwear giapponese, che era solito importare in Oriente lo stile delle subculture separandolo dal lifestyle a cui esso era associato in Occidente, creando un distacco fra stile e cultura che, creativamente parlando, consentì a designer come Hiroshi Fujiwara, Nigo e anche ai due Hirata di rielaborarne i moduli espressivi con una libertà del tutto nuova e dando al tipo di streetwear che si realizzava in Giappone un eclettismo che non aveva mai posseduto prima in Occidente.

Importante elemento dell’estetica del brand è proprio la drammaticità di vestibilità e silhouette: jeans decorati con antiche tecniche di cucitura sashiko, denim jacket con colletti e bordi inferiori segati via, piumini dall’aspetto tridimensionale intrecciati con storiche tecniche del periodo Jōmon, trattamenti a base di succo di cachi che rendono i jeans rigidi e quasi scultorei nel loro fit, camicie di flanella create cucendo insieme cinque diverse camicie di flanella tagliate trasversalmente, l’utilizzo della tradizionale tecnica giapponese Boro che prevede la sovrapposizione di diversi tessuti tenuti insieme da un pattern di cucitura decorativo, creando quell’estetica patchwork DIY che fa sembrare gli item anticati– ogni singolo pezzo presenta dettagli unici e difetti intenzionali che, idealmente, dovrebbero accumularsi sempre di più accogliendo, per così dire, nel design del capo la vita stessa di chi lo indossa e rendendolo unico nel suo genere. Secondo questa concezione, che ricade sempre nell’ambito della filosofia wabi-sabi, il capo non deve rimanere integro e immutato dal momento della vendita ma, al contrario, arricchirsi di dettagli con ogni logorio o smagliatura – dettagli che in fabbrica non sarebbe possibile ricreare e che in definitiva costituiscono il senso di vissuto che rende ciascun pezzo speciale. 

Gli abiti di Kapital hanno valore più per lo spirito con il quale vengono creati che per l’opulenza dei materiali o le acrobazie sartoriali del design - che comunque non mancano. Indossarli è un’esperienza e le esperienze che si fanno indossandoli finiscono per influire sul loro stesso aspetto finale – in una parola, gli abiti cambiano insieme a chi li indossa, trascendendo lo stesso concetto di semplice jeans  e diventando quasi creature vive, in un flusso costante di sottili trasformazioni.