
Cosa sono le scene post-credit? E perché il pubblico oggi ne è un po’ stufo
Tante cose sembrano cominciate con la Marvel. L’avvento dei supereroi, la costruzione di universi espansi appartenenti a un’unica saga, i film team-up che mettono insieme vari personaggi di altri titoli per essere finalmente insieme protagonisti di uno solo. Tutte cose cominciate ben prima del 2008, anno di inizio tra Hulk e Iron Man di ciò che sarebbe stato per più di un decennio il dominio del MCU, comprese le ormai integranti e imprescindibili scene post-credit. Eppure, prima dell’era cinematografica della Marvel, c’è un mondo e c’è una storia che appartiene alle brevi sequenze che vanno a sigillare un film. Si potrebbe cominciare dal cinema, ma se vogliamo andare ancora più indietro è possibile ritrovare il concetto a teatro, soprattutto nell’ambito musicale. Era il 1 maggio 1786 quando si svolse a Vienna la première de Le nozze di Figaro, opera in quattro atti di Wolfgang Amadeus Mozart i cui brani per la prima volta vennero riproposti a seguito di un bis. Ciò che accadde al Burgtheater della capitale austriaca diventò una pratica consueta, che prevedeva non solo una “coda” finale, bensì la ripetizione di alcune sequenze musicali durante l’opera stessa, portando lo spettacolo ad aumentare la sua durata se non addirittura a raddoppiarla, motivo per cui la pratica è andata scemando verso gli anni '20 del Novecento. Il bis si è trasferito poi sui palcoscenici dei gruppi e dei cantanti che simulavano - e simulano tutt’ora - una falsa-chiusura, avviandosi in seguito all’autentico finale, un siparietto che è diventato parte stessa delle esibizioni ricoprendo un ruolo sempre più importante.
Sono i 60s il decennio in cui la pratica del bis trovò terreno fertile nei concerti, ed è del 1966 il film a cui si fa risalire la prima scena post credit della storia. La pellicola è Matt Helm il silenziatore, il protagonista è Dean Martin e la trama segue le vicende dell’agente segreto che dà titolo al film, la cui difficile missione è liberare l’inventore del raggio della morte, caduto nelle grinfie del criminale Julian Wall. La sequenza vede il personaggio di Martin sdraiato a torso nudo su di un letto rotante e circondato da donne; compaiono in sovrimpressione le scritte «Coming Up Next» e «Matt Helm Meets Lovey Kravezit». La scena, per come è concepita, lancia al pubblico un invito ad attendere il secondo film dedicato alla spia Matt Helm, che arriverà nello stesso anno col titolo Matt Helm... non perdona!, seguito poi ancora nel 1967 da L’imboscata e nel 1968 da Missione compiuta stop. Bacioni Matt Helm (venne anche annunciato un quinto capitolo, The Ravagers, che però non è mai entrato mai in produzione). È di fatto questo il senso originario delle scene post-credit: fare da tramite ad una storia appena finita per assicurare al pubblico che a breve ce ne sarà un’altra, così da far crescere l’attesa e l’entusiasmo per il titolo seguente. Un metodo a metà tra la pubblicità e il cliffhanger di seriale utilizzo, non sempre legata alla promozione di sequel o spin-off relativi al film che si è appena concluso, visto come il suo impiego è andato poi modificandosi.
Ne La notte dei morti viventi del 1968, George Romero introdusse alcune scene mid-credit - ovvero scene dopo o nel mente dei titoli di coda - in cui si vedevano mucchi di corpi e vari falò, per indicare non ciò che sarebbe avvenuto in un ipotetico prossimo film, bensì le conseguenze imminenti del racconto che si era appena chiuso. Ci sono poi casi in cui la sequenza post credit fa presagire un possibile proseguimento al di là dei confini strettamente cinematografici. Un continuo, sì, ma solo per i personaggi e la storia interna alla pellicola stessa, che non riguarda necessariamente un’ulteriore fonte di conoscenza per gli spettatori. Accadde tra le prime volte con La casa dei vampiri, film del 1970 diretto da Dan Curtis e basato sulla soap opera Dark Shadows (la stessa che ispirò Tim Burton per il suo adattamento del 2012), di cui si fece effettivamente un sequel, ma con un nuovo cast e una storia inedita. Nella scena post credit, Barnabas Collins apparentemente senza vita si trasforma all’improvviso in un pipistrello e vola via. Una possibilità per un futuro anche cinematografico, senz’altro, ma anche solo il permettere al pubblico di viaggiare con la fantasia e di crearsi il finale che più lo aggrada.
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Nel corso della storia del cinema, le scene post credit hanno continuato a mutare, adattandosi di volta in volta al prodotto in cui venivano inserite. A volte servivano ad annunciare sequel, altre divertivano semplicemente. Si va dai bloopers, gli errori e gli scherzi sul set che potevano scorrere in solitaria o al fianco dei titoli di coda, fino alla pratica della rottura della quarta parete, di cui tra le più iconiche ricordiamo il momento in vestaglia rossa e bianca del protagonista di Una pazza giornata di vacanza del 1986, scritto e diretto dal leggendario John Hughes - ripresa poi anche dal Deadpool di Ryan Reynolds. Ma sono per la prima volta i Muppets a interpellare direttamente il pubblico col loro The Muppet Movie nel 1979, con una scena in cui i personaggi sono tutti intenti a parlare mentre Animal si rivolge al pubblico invitandolo ad andare a casa - proprio come farà sette anni dopo il Ferris Bueller di Hughes, e trentasette dopo Deadpool.
Si arriva così alla Marvel e all’inedito valore assegnato alle scene post-credit. Fin dall’Iron Man di Jon Favreau, il MCU ha cominciato a costruire, scena post credit dopo scena post credit, un mosaico più espanso, fatto di sequel, multiversi, rimpalli e interconnessioni cinematografiche. Alla fine del cinecomic del 2008, Nick Fury, interpretato da Samuel L. Jackson, si reca a casa di Tony Stark che ha appena rivelato la sua super-identità per parlargli di una certa «Avenger Initiative». Fury sfotte il compagno per quanto si sente speciale, visto che a quanto pare Iron Man non è l’unico supereroe a far parte del mondo. C’è una frase emblematica nella sequenza post-credit che riecheggia come un manifesto di ciò che saranno da quel momento i film sui supereroi e, in particolare, della Marvel: Fury comunica a Tony Stark di essere ora parte di un universo più grande, solo che non lo sa ancora. E cos’è questo, se non il riverbero dei successivi anni, con conseguente costruzione del Marvel Cinematic Universe, di cui ancora oggi, da un ruolo ad un altro, il suo attore Robert Downey Jr. continua e continuerà a far parte (è atteso infatti prossimamente nella cappa verde di Dottor Destino).
Ciò che è scattato con le scene post-credit Marvel è stata una grana che ha ribaltato il loro meccanismo. Non più l’assaggio o il regalino in regalo agli spettatori a fine film, ma la portata centrale tanto per i cinecomics quanto per il pubblico. Il rivelamento continuo di un inedito personaggio o di una determinata storyline nelle scene mid e post-credit della Marvel ha generato un’attesa del film e una sua visione solamente finalizzata allo scoprire cosa accadrà dopo. Il piacere della visione si è assuefatto, con fan in religioso silenzio seduti dalle due alle due ore e mezza sulla poltrona del cinema soltanto per godere dell’ultimo minuto e mezzo di sequenza in chiusura. Un ingranaggio che fa più notizia del film stesso, che dà la sensazione che si è prodotto un cinecomic più per la sua scena post-credit che per tutto il resto e che accresce le aspettative e indebolisce sempre più la vera trama, fino all’arrivo della cosiddetta “stanchezza da supereroi”, causa ed effetto della somma di tutte le sequenze mid e post-credit dei film Marvel - ma si può dire che dal 2013 e l’arrivo di Man of Steele ha afflitto anche la rivale DC.
marvel finally getting the fantastic four right only for their doom to be rdj pic.twitter.com/QNXJMf0eAK
— neo (@neogalaxite) July 24, 2025
Una deriva che la Marvel ha potuto - e deve cercare ancora adesso - di combattere in un unico modo: restituire al pubblico storie dignitose che intrattengano, a prescindere da cosa verrà dopo. Una strada maestra che lo studio ha perso di vista e ha portato a operazioni discutibili e, soprattutto, ad un ridimensionamento degli incassi rispetto alla sua epoca d’oro. Prendiamo ad esempio Thunderlbolts*, trentaseiesimo film del MCU, il cui più grande merito e la vera fonte di interesse non ricade solo sullo scoprire nel finale che il team forma i “The New Avengers” e che i Fantastici Quattro sono in arrivo nel loro universo con una navicella spaziale, bensì su di una scrittura che fa della pellicola un’opera sulla solitudine, la depressione e persino il suicidio. Ovviamente la Marvel non può esimersi dal tentare di mantenere alta la curiosità ed ecco che, mentre una delle due scene post-credit de I Fantastici Quattro - Gli inizi è solamente la sigla del loro cartone animato, nella più rilevante compare di spalle il prossimo Dottor Destino insieme al piccolo Franklin, figlio di Reed Richards e Sue Storm. Che le scene post credit siano diventate un modo per non far alzare le persone durante i titoli di coda - sia come forma di rispetto per chi rimane seduto e non deve vedersi passare davanti le persone, che per chi al film ha lavorato e ne va riconosciuto il merito - si tratta di certo di un pregio che va riconosciuto alla Marvel. Per tutta la sequela di scene mid e post-credit inutili di cui invece si è successivamente riempito il cinema, dall’action alla fantascienza finanche al dramma e alla commedia, un po’ non possiamo che biasimarla.











































