FUORIMODA REVIEWS – La prima piattaforma online per recensire i fashion show

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È arrivata la fine per la sostenibilità nella moda? di Orsola de Castro

La newsletter di questo giovedì ospita la firma di Orsola de Castro, designer, autrice e «riparatrice da sempre». Co-fondatrice della no-profit Fashion Revolution e autrice di Loved Clothes Last, promuove da oltre vent’anni una moda trasparente ed equa. Dal lancio del brand From Somewhere alla curatela della London Fashion Week, il suo lavoro intreccia da sempre creatività e attivismo. Partendo dalla triste piega che ha preso la relazione tra sostenibilità e moda nel 2025, ferita profondamente da una crisi finanziaria che ha cambiato le priorità del settore, de Castro ci racconta la storia del greenwashing e degli investimenti a solo scopo mediatico del post-2000, descrivendo infine le pratiche autentiche che sono sopravvissute a questi anni di finte pubblicità. Il mercato dell’usato, come vi abbiamo raccontato in questo articolo, rappresenta un’ancora di salvezza per i brand naufraghi del 2025. Ma riuscirà il commercio del recupero a conquistare la stessa reputazione?  


Per quasi 20 anni, il pianeta moda si è finto interessato ad un cambiamento, si è vestito di etica e ambientalismo, si è messo la farina sulle zampe per passare da lupo ad agnello, e ha continuato a vendere una discarica di prodotti inutili nei parametri di queste promesse. Adesso che nessuno - ne’ i consumatori, ne’ gli addetti ai lavori - ci capisce più nulla, ci è finalmente dato di vedere la verità: il costume di carnevale svestito in tutta la sua (vana) gloria. 

Era una bellissima maschera, chiaramente. Con le perline (non in plastica) il luccichio (sostenibile) cucito da dio (anzi no, meglio, da lavoratori pagati dignitosamente), riciclato-circolare-riciclabile e, dulcis in fundo, disponibile in tutte le taglie e non solo fino alla 44. Lo hanno indossato un po’ tutti: i CEO, i CFO, i creative director, i top manager; se lo sono prestato quando serviva, per fare bella figura alle conferenze internazionali sulla sostenibilità, quando hanno vinto premi per iniziative senza senso e senza impatto o quando, intervistati nelle pagine dei vari Vogue di turno, si sono auto dichiarati santi. Ma adesso non importa più. Tutti i bambini al potere stanno giocando ad un altro gioco. Non più quello di far finta di essere buoni, ma quell’altro: «facciamo a chi è capace di essere più cattivo». La fashion industry, governata da un pugno di bambini viziati e in cerca di  attenzione, ha cambiato la volta al suo girotondo. 

Che la moda voltasse le spalle alla sostenibilità, purtroppo, era prevedibile 

Il primo dubbio mi è venuto qualche anno dopo l’inizio della mia avventura, quando mi sono accorta che il concetto di sostenibilità stava diventando un trend. Alla fine degli anni 2000 e quasi all’improvviso, ciò che fino ad allora era trattato solo da un piccolo e invisibile gruppo di pionieri pieni di coraggio e di originalità è stato avvistato dalla grande industria. Farsi notare per dare vita a un cambiamento dall’interno era ovviamente il nostro proposito, ma in  breve tempo è successo l’opposto: invece di influenzare siamo stati influenzati, e il concetto di sostenibilità, circolarità e giustizia sociale sono diventati un prodotto, non un nuovo paradigma sistemico. Come se centinaia di migliaia di borse vegane (ovvero realizzate in plastica) o magliette in cotone biologico, un'iniziativa «sostenibile», «inclusiva», o una qualsiasi collaborazione di profilo - creata sempre al fine di vendere - avrebbero scaturito chissà cosa.

«Una discarica piena di magliette di cotone biologico è comunque una discarica traboccante» -Marc Bain

Diventando trend, il concetto stesso di sostenibilità ha perso il suo proposito, passando da iniziativa a luogo comune. Inoltre, sappiamo tutti che i fenomeni di tendenza passano, che hanno un effetto boomerang, che spariscono e ritornano ciclicamente come i pantaloni a tubo e quelli svasati. Su Google, fino al 2022 le ricerche per «moda sostenibile» erano in crescita, mentre adesso sono in costante calo - picchi sporadici a parte, come in occasione di «Earth Day».    

Gli anni della finzione

La pratica del greenwashing è stata il vero disastro. Proclamazioni e promesse, iniziative inesistenti, parole usate senza contesto e costante sensazionalismo hanno creato un minestrone di confusione che ha portato i consumatori ad annoiarsi - perché non gli è mai stata raccontata la verità. La sostenibilità non è stata altro, per la maggior parte di loro, che un periodo durante il quale H&M appendeva slogan verdognoli nei negozi ed etichette in carta riciclata sui capi. Sostenibile è stata per vent’anni una parola vista e rivista, ma mai assimilata, mai veramente vissuta, un esercizio di marketing, uno sforzo inutile. Eppure in tecnologie, innovazione e start-up sono stati investiti miliardi. Grandi gruppi e mega brand di fast fashion lo hanno fatto principalmente a scopo mediatico, ma c’è anche chi, in questi anni, ha investito con merito. In fondo, si è trattato pur sempre di due decadi di grandi insegnamenti, in cui abbiamo assistito all’alba di infinite possibilità sognando che un’industria leader avrebbe potuto capitanare una virata definitiva nelle supply chain. Non è successo. 

Felicemente, perché c’è un lieto fine in questa storia. I non puntati vincitori sono antichi come il mondo: il mercato dell’usato, unico rivale sopravvissuto del fast e ultra fast fashion - e la pratica del riuso e della riparazione; istinti primordiali che ci portiamo appresso da sempre come parte della nostra innata, ma temporaneamente dimenticata, efficienza. Sì, perché i grandi investimenti sono andati anche a servizi per riparazioni, seguiti da legislazioni (in Francia e presto in Europa) che ne facilitano e ne incentivano l’uso. Il mercato di questi servizi in particolare si sta trasformando significativamente, crescendo del 2.5% annualmente, e, secondo Business Research Insights, passera’ da $3,6 miliardi nel 2024 a $4,5 miliardi nel 2033.

Se il mercato dell’usato e del vintage ha preso il sopravvento - e i grandi marchi se ne sono accorti - il prossimo a venire sarà quello dei ripari, delle personalizzazioni e delle alterazioni, una in-house couture dove gli abiti nei nostri armadi vengono custoditi, rammendati e trasformati con cura. I veicoli della nostra vita porteranno, finalmente, le cicatrici che lo dimostrano. Sarà questa secondo me la nuova uniforme: abiti abitati, messi e rimessi, consunti ma recuperati, anime indossate, capi alterati, trasformati, testimoni. Attraverso di loro visualizzeremo le nostre intenzioni, così come adesso le stampiamo sugli slogan delle magliette

I Care I Repair 

@orsoladecastro I am calling this style Broken Rococo and its all about opulence and sumptuousness to make anything broken even better than when it wasnt. #lovedclotheslast #kintsugi (for clothes) #upcycledfashion #lol original sound - Orsola de Castro

Presto smetteremo di cercare di apparire nuovi ogni volta, perché i trend sono solo un pendolo e oggi siamo arrivati a un culmine. Inevitabilmente, le generazioni future si guarderanno indietro e giudicheranno i nostri malfatti, come noi guardiamo e giudichiamo quelli dei nostri progenitori, e i danni che abbiamo fatto alle loro vite, come quelli commessi in passato che oggi destabilizzano il nostro presente. Intanto, quando insegno nelle università, quando incontro giovani designer emergenti che provengono da tutto il mondo, capisco che l’impeto di dare di più e togliere di meno è presente ed attivo nelle loro prerogative; non sta a loro cambiare il mondo, ma possono influenzare la loro cultura e le persone che li circondano. Lo stesso vale per Gen Z e Gen Alpha dopo di loro, coscienti di un mondo in declino, in bilico fra le regole del capitalismo che gli impongono un consumo continuo e quelle della natura che ci implora un ridimensionamento. Bisogna partire dal piccolo e dal proprio. Crederci. Quando si pensa di dover sopraffare il fattibile, si perde la misura. Il mio armadio è stata la continua ispirazione, ricomincio sempre da lì: da un golf bucato o un orlo caduto, da un vestito riscoperto e uno dimenticato.