
Quando un brand trova il successore perfetto al suo founder
Ieri a Parigi, Dries Van Noten e Tom Ford sono tornati in grande stile – il compito non era facile
06 Marzo 2025
Trovare un nuovo direttore creativo per un brand storico è difficile. Tra mille false partenze, collezioni di debutto deludenti, brand privi di direzione creativa per mesi e designer cambiati dopo due o tre collezioni, la fiducia nell’arrivo di un “successore perfetto” si è molto affievolita. Gucci e Burberry sono stati i due brand in maggiore difficoltà nel trovare una figura capace di colpire nel segno, ma anche Sean McGirr da Alexander McQueen ha avuto non poche difficoltà con il suo show d’esordio, e gli stessi dubbi e incertezze hanno circondato le collezioni di debutto di Peter Copping da Lanvin e di Veronica Leoni da Calvin Klein – entrambe valide e ben accolte ma prive di quell’entusiastico e unanime amore a prima vista che ieri si è visto a Parigi per altre due collezioni di debutto di nuovi direttori creativi: Julian Klausner da Dries Van Noten e Haider Ackermann da Tom Ford. Due figure, quelle di questi nuovi direttori creativi, molto diverse tra loro: il primo è stato una promozione interna, era alla sua prima direzione creativa dopo sei anni passati negli atelier del brand e non era parecchio famoso; il secondo invece lo è eccome, anzi, è un designer di culto per i cognoscenti della moda e il suo talento non aveva ancora trovato per alcuni anni una direzione creativa in cui esprimersi. Eppure la loro missione era simile. Sia Dries Van Noten che Tom Ford, pur essendo brand molto diversi tra loro, avevano appena visto ritirarsi dalle scene i rispettivi direttori creativi – due veterani dell’industria celebrati per aver creato un’estetica assai personale ma soprattutto sfuggente alle imitazioni. Entrambi i brand hanno presentato delle collezioni di “interregno” valide (da Dries Van Noten l’aveva firmata il team, da Tom Ford il direttore creativo ad interim Peter Hawkings) ma avevano bisogno di quel je-ne-sais-quoi che soltanto una nuova visione e un designer talentuoso possono fornire. E ieri, con grande sollievo dell’audience, entrambi i nuovi direttori creativi si sono rivelati perfettamente all’altezza del compito.
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Sia Klausner che Ackermann hanno dovuto affrontare una sfida non da poco. Il primo, da Dries Van Noten, doveva sia dimostrare che un brand dall’estetica delicata e complessa fosse in buone mani, sia replicare lo stesso stile di Van Noten senza che la ripetizione fosse sterile. Era francamente una cosa difficile anche solo da immaginare dato che Dries Van Noten non lavorava mai con una formula predefinita e non aderiva mai ai trend – semplificarlo o “copiarlo” l’avrebbe snaturato del tutto. L’approccio di Klausner è stato doppio: spontaneità e concretezza. La natura spontanea della collezione gli ha dato quella sorta di aura impressionista, di opulenta estasi dei sensi per cui Van Noten è sempre stato conosciuto: la difficile alchimia di consistenze, colori e stampe che, stratificandosi, combinandosi e accumulandosi danno immediatamente la sensazione che gli abiti stiano per trasformarsi in qualcos’altro. Un effetto che può ritrovarsi tanto in look relativamente semplici, come quelli che includevano un semplice trench di un vivido indaco o un abito verde curiosamente drappeggiato, che in altri assai immaginosi, in cui su damascati e stampe a quadri brillavano incrostazioni di cristalli e i baveri sollevati rivelavano la luce dei dettagli bianchi o altri che univano giubbe cobalto con motivi a rilievo, cinture di frange e trasparenti gonne devorè il cui verde petrolio cambiava in un blu a seconda della luce. La concretezza era rappresentata dalla portabilità degli abiti che sono nati per essere immediatamente traslati nel mondo reale e dunque non erano astrazioni concettuali. La collezione sarebbe meritevole di essere descritta per intero o, meglio, vista e sentita – ma il messaggio è chiaro: Klausner ha inteso alla perfezione la natura del brand, non ha provato a trasformarlo in qualcos’altro né in replicare freddamente uno stile. C’era intento e c’era romanticismo ma anche una profonda comprensione di cosa faceva funzionare il particolare tipo di romanticismo tipico di Van Noten.
Da Tom Ford il compito era insieme più semplice e più difficile. Il brand di Ford è diventato di culto per la sua capacità di creare e di creare un’aura di sensualità che è una sorta di attitude. I prodotti più adorati sono sicuramente gli incredibili profumi e gli occhiali da sole, ma il successo di Tom Ford è stato da sempre determinato dalla clientela menswear, che rappresenta la maggioranza del business, e che è composta da individui molto abbienti ma soprattutto molto in linea con un certo stile di vita insieme elegante ed edonista che esattamente ciò che Ford rappresenta con la sua stessa persona. Il suo menswear è apprezzato perché anche un semplice maglione o una giacca possiedono una sveltezza di linee, una silhouette che fanno immediatamente sentire sexy. Va anche detto però che negli ultimi anni le collezioni del vero Tom Ford tendevano pericolosamente all’autoindulgenza: troppi pantaloni slim-fit, troppe stoffe lamé, stampe animali, colori vivaci ma stucchevoli, dettagli sportswear moderni troppo artificiali nel mondo di disco decadence del designer texano. Ackermann ha mantenuto tutto ciò che c’era di buono e ha prosciugato il resto: ieri in passerella è apparso indosso ad Alex Consani è apparso un abito stupendo che ricordava i pepli di Halston ma con un livello di sexyness in più e un drappeggio così studiato da parere miracoloso; i completi dai colori a contrasto perfettamente bilanciati e una serie di look più semplici che includevano tutto l’eccesso di cui Tom Ford è il simbolo (top bianchi di coccodrillo, una gonna lunga che cade asimmetricamente sulla vita con un laccio di pelle che rivela la più interna ed erogena parte del fianco ma anche un abito verde coprente sul davanti ma pericolosamente scollato sulla schiena) con un livello di misura e di finezza che rendeva tutta l’incandescenza dello stile di Ford nel modo più raffinato possibile.
Qual è stato il segreto di entrambi? Si può dire senza dubbio che il loro compito non fosse facile, ma sia stato facilitato dal fatto che, sia per Dries Van Noten che per Tom Ford, l’identità del brand fosse così perfettamente a fuoco. I problemi che spesso emergono quando un direttore creativo non convince derivano dal fatto che quando un certo brand diventa troppo grande e troppo commerciale, e la sua storia si stratifica troppo, né internamente sul piano del management né esternamente su quello della clientela si ha la chiara percezione di cosa rappresenti il brand e di chi sia il suo cliente. C’è sicuramente da considerare anche la questione più “aziendale” della gestione del marchio: i brand di LVMH e Kering tendono infatti a lavorare secondo un preciso manuale dell’espansione che funziona senza alcun dubbio ma crea anche un’atmosfera di artificialità e di pilotaggio dall’alto, la sensazione che ci siano troppi cuochi in cucina, per così dire. Mentre si percepisce che i due brand, parti di gruppi grandi (rispettivamente Puig e Zegna) ma comunque meno titanici e massificati dei due giganti francesi, sono in grado di lavorare con maggiore agio e senza lo stesso grado di pressione, sia interna che mediatica, sotto cui spesso i direttori creativi che esordiscono in grandi brand si trovano schiacciati. E quello del successore perfetto è un tema importante se, come è vero, Loewe dovrà presto trovarsene uno, così come dovranno farlo Gucci e Jil Sander – solo per citare i nomi più importanti. I due show di ieri, comunque hanno dimostrato che trovare il successore perfetto è difficile ma non impossibile. Nella moda, infatti, tra l’adulazione e l’ipocrisia che regnano nei backstage e nei front row, è difficile definire come si manifesti esattamente una buona combinazione, la si può tutt’al più riconoscere quando ce la si trova davanti.