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Come sono andati i 5 debutti della fashion season

I risultati sono misti, l’entusiasmo è molto

Come sono andati i 5 debutti della fashion season I risultati sono misti, l’entusiasmo è molto

Una delle regole non dette del giornalismo di moda è quella di sospendere sempre il giudizio sulle prime collezioni. Non parliamo soltanto delle collezioni degli esordienti completi ma anche di quelle dei nuovi direttori creativi di brand già stabiliti. Quando un nuovo direttore creativo entra in un certo brand, infatti, spesso ha pochissimo tempo per mettere insieme una collezione – in alcuni casi qualche mese o anche meno. Rimane storico, ad esempio, il debutto di Alessandro Michele da Gucci che con il suo debutti riuscì a restituire un’idea generale del nuovo corso del brand, pur realizzando una produzione assai più scarna rispetto a quelle che sarebbero seguite. A questo si deve anche aggiungere che molte prime collezioni sono come una larga rete gettata in acqua, per sondare bene quali look e quali stili funzionano meglio col pubblico e aggiustare il tiro alla stagione successiva. 

Bisognerà dunque soppesare le cinque collezioni di debutto viste nelle ultime settimane, tra Milano e Parigi,con un grano di distacco, senza sbilanciarsi eccessivamente – il tempo, come un bravo giudice, confermerà o ribalterà il risultato.

1. Tod’s

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Veterano di Rochas, Schiaparelli, Pucci e soprattutto di Bottega Veneta, Matteo Tamburini ha sostenuto l’urto dell’atterraggio da Tod’s con grande grazia. Sia perché la sua sensibilità per il prodotto ha sostenuto bene lo slancio che il brand aveva preso con Walter Chiapponi, sia perché lo show che ha organizzato, in uno dei depositi storici dell’ATM, ha racchiuso molto bene quella “milanesità” che di questi tempi sta sorgendo come risposta alla classica chicness francese che si nota sulle strade di Parigi. In una stagione un po’ pallida e affebbrata, Tamburini ha fornito una prova chiara, netta suggerendo anche che in futuro potrebbero nascondersi interessanti sperimentazioni.

2. Blumarine

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Passare da Nicola Brognano a Walter Chiapponi è stato come passare dal Cosmopolitan al vino rosso. Blumarine è un marchio ingannevolmente semplice, la cui percezione varia in base alle generazioni. Chi seguiva e consumava moda già negli anni ’80 e ’90 ricorda certamente l’ebbrezza dello stile di Anna Molinari, le campagne di Helmut Newton con Monica Bellucci, quell’eleganza civettuola da Lolita anni ’90. Altri sono legati alla sexyness radicale e alla sensibilità stile The O.C. di Brognano. Un mondo tanto lezioso quanto malizioso che Chiapponi ha fatto virare verso gli stessi territori estetici di Christiane F., Davide Sorrenti e Nancy Spungen senza però lo stesso gusto per il prezioso e il decadente. Ci sarebbe forse piaciuto vedere più abbandono, più romanticismo e, in assenza di parole migliori, più mordente.

3. Moschino

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La grande domanda: cos’è Moschino? Senza voler far prendere un infarto ai conoscitori della moda che avevano superato la maggiore età nel ventennio ’80 e ‘90, non se lo ricorda più nessuno. Specialmente dopo dodici anni di bombardamento fluo e orsacchiotti di Jeremy Scott. Se volessimo comunque restringere l’essenza del brand a un singolo aggettivo, si direbbe forse “spiritoso” che non significa “clownesco” ma piuttosto arguto, ammiccante, camp, vitale. Ora, la collezione pare essere piaciuta agli appartenenti alle generazioni precedenti e forse noi, nell’ignoranza dell’inesperienza, non abbiamo colto appieno il messaggio. Fatto sta che la location e i colori della collezione sono apparsi foschi, l’atmosfera cupa, i ripescaggi dall’archivio prolissi. E questo lo diciamo nel pieno rispetto di Appiolaza che è uno degli archivisti e dei designer più talentuosi sulla scena – magari la prossima volta ci concederà lo stesso brio e la stessa frizzantezza che dimostra di avere per i propri outfit.

4. Alexander McQueen

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Sarebbe facile giocare a cogliere le citazioni alle diverse collezioni del grande Lee McQueen. Eshu, Banshee, Pantheon ad Lucem… già i nomi di quelle collezioni originali suonano come film o romanzi. La prima prova di Sean McGirr è stata difficilissima, una vittoria di Pirro che si esiterebbe quasi a definire vittoria – eppure il nuovo direttore creativo ha detto a Vogue che McQueen dovrebbe essere «uplifting» e giocosamente aggressivo aggiungendo anche: «Vorrei portare una certa leggerezza in McQueen». Parole che non ci sentiamo di condividere e che fanno anche un po’ ridere: sarebbe bello portare leggerezza in Delitto e Castigo di Dostoevskij ma poi non sarebbe più un capolavoro. Rendere il lavoro di Alexander  McQueen rassicurante è come provare a fare la manicure a un lupo mannaro. Ma abbiamo fiducia che il talentuoso McGirr sappia cogliere l’antifona.

5. Chloé

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Dopo una serie di debutti vagamente sepolcrali, Chemena Kamali è arrivata in passerella come una brezza fresca e profumata. Certo, la collezione di debutto di Chloé poteva certamente essere più equilibrata, alcuni look risultavano sovraccarichi di idee che si sarebbero potute asciugare più sintenticamente ma Kamali ha indovinato senza la minima esitazione cosa costituisse la freschezza e il brio del brand. Si avverte subito che la sua mano conduce con una sicurezza che ci fa tirare un sospiro di sollievo: niente in questa collezione è approssimativo, nulla risulta antiquato o stantio. Per il futuro, le attese paiono rosee.