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La storia di Dries Van Noten

Dalla fondazione al congedo dalle scene

La storia di Dries Van Noten Dalla fondazione al congedo dalle scene

Quello di Dries Van Noten è un caso raro nella storia della moda. Se altri celebri designer possono essere “spiegati” categorizzandoli in una certa estetica di riferimento, per Van Noten non ci sono caselle che tengano. Tanto che quando bisogna riassumerne le doti o gli orientamenti in breve si usa dire che è un maestro del colore – dichiarazione vera ma riduttiva. La grande e per certi versi fluida abbondanza di stampe, colori e ispirazioni che si vede nelle sue collezioni ha tanto l’opulenza che la concretezza che si ritrova tra i maestri della pittura fiamminga: tutto è vivido, morbido, assurdamente dettagliato ma anche saldo nella sua pragmaticità. Un repertorio enorme quello di Van Noten (38 anni di lavoro, oltre 100 collezioni) la cui straordinaria coesione estetica non deriva tanto da uno specifico metodo ma da quell’attitudine, che il designer attribuisce ai suoi studi nell’Accademia di Anversa, di prendere ispirazione da tutto senza mai gettarsi a peso morto su una certa estetica. Così come George R.R. Martin distinse gli scrittori, anche noi potremmo dividere i designer in architetti e giardinieri: i primi pianificano tutto prima, i secondi lasciano che le ispirazioni si sviluppino libere e Van Noten è fra questi. Ad aiutarci nel creare questa metafora c’è il fatto che Van Noten è davvero un giardiniere e il parco che circonda il suo villino ottocentesco a trenta minuti in auto da Anversa è diventato negli anni famoso quanto lui.

Ma per capire Van Noten bisogna fare un passo indietro. Nato ad Anversa nel 1958, Dries van Noten è cresciuto in una famiglia profondamente radicata nella tradizione sartoriale: suo padre, discendente di una famiglia di sarti, possedeva diverse boutique e viaggiava tra Milano e Parigi acquistando scarpe di Ferragamo e camicie di Charvet. Il primo ruolo lavorativo ufficioso ricoperto da Van Noten fu proprio quello di “buyer” per il negozio del padre dove, tra l’altro, capitava si organizzassero sfilate per i clienti locali. L’importanza di questa prima fase non è da sottovalutare: «Credo che il fatto che mio padre avesse un negozio», disse una volta il designer a Dazed, «mi abbia decisamente fatto capire l’aspetto commerciale della vendita di abbigliamento». Un interesse che si è mosso in parallelo con la passione del designer per «arte, antiquariato e architettura» e che lo avrebbe portato più avanti a fare frequenti riferimenti al mondo dell’arte oltre che alla cultura anni ‘70 che fece da sfondo alla sua adolescenza. 

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Il percorso di Van Noten nel mondo della moda ha avuto inizio nel 1977, quando si è iscritto alla Royal Academy of Fine Arts di Anversa, dove ha incrociato la strada con futuri luminari come Walter van Beirendonck e Ann Demeulemeester insieme ai quali divenne parte degli Antwerp Six che presentarono per la prima volta nel marzo dell’1986 con uno show collettivo a Londra, destinazione raggiunta burrascosamente in un van, che però entrò nella storia della moda come l’alba di una nuova avanguardia. Il suo brand nel frattempo aveva attirato l'attenzione di buyer prestigiosi come quelli di Barneys a New York e di Whistles a Londra che acquistarono alcune camicie da uomo di Van Noten nelle taglie più piccole rivendendole come womanswear che divenne una categoria a sé stante nel 1987. Nel 1988 gli Antwerp Six, chiamati collettivamente così dato che i loro nomi risultavano di difficilissima pronuncia per i giornalisti, passarono dalla London Fashion Week a quella di Parigi. Un anno più tardi gli affari andavano abbastanza bene e Van Noten aprì, sempre ad Anversa, una delle “cattedrali” oltre che il suo storico negozio: Het Modepaleis, la cui inaugurazione segnò un momento cruciale per il brand nascente. Già nel ’91 presentava a Parigi la sua prima collezione menswear mentre nel ’93 iniziarono le sfilate per la linea femminile.



La storia di Van Noten dopo la fondazione fu assai tranquilla in un mondo della moda che, nel corso degli anni ’90, era nel pieno di acquisizioni, cessioni e rimpasti di ogni tipo. Erano i primi anni di LVMH, durante i quali il “lupo in cachemire” Arnault annetteva brand a destra e a manca e maison storiche venivano chiuse, riaperte, acquistate con esiti non sempre positivi. Fu intorno alla metà del decennio che Van Noten organizzò alcuni dei suoi show più iconici: per la SS94 fece piovere petali di rosa sulla passerella e sul pubblico; per la FW94 uno stuolo di camerieri in livrea bianca distribuiva cibo e drink su vassoi d’argento e il tappeto rosso della passerella venne srotolato poco prima dello show; per la stagione SS95 i modelli giravano in bici per il parco del Palais Royale, per la SS96 organizzò uno spettacolo di fuochi d’artificio, nella FW96 introdusse l’accoppiata di gonna e pantalone. Per Van Noten la sfilata era un’esperienza immersiva, un’estensione della collezione ma priva sia della teatralità grandiosa di Galliano o Lagerfeld, sia delle provocazioni decadenti di Alexander McQueen. Nonostante i successi di critica, non mancarono incertezze economiche: gli anni ’90 erano l’era del minimalismo e i lavori di Van Noten con il loro colore, l’abbondanza di stampe e le insolite giustapposizioni non conquistarono subito il pubblico. «C'è stato un periodo, intorno al 1997 e al 1998, che ha fatto paura a me come stilista e a noi come azienda», disse una volta Van Noten al The Guardian. «All'improvviso, i grandi gruppi del lusso avevano tutto il potere e io ero solo un ragazzo che faceva collezioni etniche. A quel punto ho pensato di vendere l'azienda».



Sempre nella stessa intervista al The Guardian, Van Noten disse che il periodo di fortune alterne si concluse con il trauma storico e sociale dell’11 settembre che inaugurò una fase così cupa che «improvvisamente, le persone volevano qualcosa a cui potersi affezionare. Volevo che i vestiti sembrassero qualcosa di ereditato da un nonno. Abbiamo avuto un'enorme risposta. Le persone si sono avvicinate al nostro modo di pensare». Questo fu anche il periodo in cui il designer lamentò l’avvento del fast fashion: «La gente comincia a pensare che quei prezzi siano normali, che si possa comprare una camicia da uomo a 20 sterline», disse. «Ma con 20 sterline non si può nemmeno comprare il tessuto per una delle nostre camicie, figuriamoci se si può produrre la camicia o vivere dei suoi profitti». A metà del nuovo decennio, nell’ottobre del 2004 per essere esatti, Van Noten presentò la sua 50esima collezione, ancora oggi ricordata come uno dei suoi capolavori: la passerella era una lunghissima tavola illuminata da lampadari di cristallo, con posti apparecchiati per 500 invitati serviti da 250 camerieri. Dopo che il poisson en papillote venne servito le modelle iniziarono a sfilare con una serie di look del tutto bianchi che via via divennero sempre più colorati. Un altro annus mirabilis per il designer fu il 2008, quando vinse il premio di miglior designer internazionale del CFDA e vestì Cate Blanchett per gli Oscar, avviando poi un lunghissimo rapporto con l’attrice.

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Gli anni immediatamente precedenti al 2010 segnarono anche una marcata espansione del brand che nel 2007 aprì una prima boutique a Parigi e dieci mesi dopo una a Singapore – i negozi di Tokyo e Hong Kong invece erano già aperti da qualche anno. Facciamo un salto nel tempo fino al 2014: fu quello un altro annus mirabilis in cui  per la prima volta Van Noten divenne il protagonista di una mostra retrospettiva al Musée des Arts Décoratifs di Parigi di nome Dries Van Noten: Inspirations – probabilmente una delle mostre dedicate alla moda più belle mai allestite. Due piani: il primo dedicato alle ispirazioni, con mescolanze di clip cinematografiche, vecchie riviste di moda francese, artefatti recuperati negli archivi del museo, opere d’arte di Bronzino, Picasso e Damien Hirst; il secondo dedicato agli effettivi vestiti e accessori. Allo show fecero da cornice anche le collezioni invernali del 2014: quella maschile, presentata a gennaio, con il motto di Rave and Renaissance abbandonò stampe e ricami in favore di tinture, lavaggi nell’acido, colli di pelliccia. Ancora migliore fu la collezione femminile, presentata alla vigilia dell’inaugurazione, e in cui si espresse al massimo l’eclettismo di Van Noten: motivi floreali argentei, cappotti e pantaloni dai tagli maschili, languide silhouette anni '30 e tocchi di glam rock, di estetica rave e psichedelia, con t-shirt e felpe piene di stampe ottiche.

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Durante questo periodo, l’indipendenza del designer divenne centrale. Nel 2013 Van Noten disse a WWD: «La nostra attività non deve crescere ogni anno in modo smisurato come quando si fa parte di un grande gruppo. Non ho bisogno di avere un negozio in ogni città. È un lusso poter dire che voglio solo continuare a fare quello che stiamo facendo... essere creativo e occuparmi delle cose che amo davvero e non essere obbligato a fare tutte le borse, le scarpe, gli occhiali da sole e cose del genere...». In effetti il suo volume di affari (in crescita salutare dato che passò da circa 30 milioni annui nel 2007 fino a poco meno di 100 milioni stimati dieci anni più tardi) veniva quasi del tutto dal ready-to-wear – una cosa di cui nemmeno i brand più grandi possono sempre vantarsi. Nel bel mezzo della tempesta streetwear, Van Noten si concesse solo una collezione maschile, la SS15, per esplorare la sua personale lettura dello sportswear attraverso la lente del balletto, ispirandosi a Rudolf Nureyev e tra l’altro facendo indossare a tutti i modelli delle ballerine come di recente, e assai più tiepidamente, fece Dior. Ma il designer si superò l’anno successivo con una collezione ispirata ai pre-raffaeliti e al personaggio shakespeariano di Ofelia, i cui inviti erano una scatola trasparente piena muschio vivo, e per il cui finale le 57 modelle si adagiarono su un tappeto di erba e licheni in un caleidoscopio di stampe e tessuti trasparenti e scintillanti. Altri punti alti furono la collezione maschile FW16 presentata al Palais Garnier e quella femminile ispirata al decadentismo e alla marchesa Luisa Casati e nella cui soundtrack si mescolavano la musica di Stravinsky, la lettura di una poesia di D’Annuncio e il battito di un cuore umano. 



Seguirono altri highlights e altri show, ma la vicenda del brand proseguì sostanzialmente indisturbata fino al 2018 quando una quota di maggioranza venne acquisita dal Gruppo Puig che voleva farne crescere il volume d’affari. Molto interessanti le parole condivise all’epoca con WWD: «Ho cercato un partner forte per l'azienda che ho costruito per oltre 30 anni. Sono particolarmente felice che Anversa e il mio team rimangano il cuore e il centro dell'azienda. Il rapporto con i nostri clienti è prezioso e non potrà che trarre beneficio da questa visione rafforzata». Parole che fanno presumere che l’acquisizione sia probabilmente avvenuta dietro la ferrea condizione che l’indipendenza creativa, la composizione del team e la base geografica del brand sarebbero state mantenute. L’integrità e autenticità di Van Noten tornarono di nuovo a far discutere nell’anno della pandemia quando fu proprio una lettera aperta del designer a spalancare la questione (aperta ancora oggi) dell’enorme disfunzionalità del calendario della moda tra collezioni in eccesso, scontistica sbilanciata e ritmi di produzione eccessivi. In quell’occasione, la lettera di Van Noten aprì la discussione senza però chiuderla: è indubbio che quel momento abbia rappresentato una presa di coscienza, più che della moda in sé, del pubblico generale, stabilendo uno spartiacque che definiva l’operato di “vecchio” lusso commerciale e iperattivo e quello di un “nuovo” lusso, con designer che producono in maniere alternative al canone classico del sistema.

@aannnttoo0 Just me opens dries van noten ss23 #parisfashionweek #fy original sound - niah <3


Infine, dopo una serie di collezioni stellari (la nostra preferita è stata la collezione maschile SS23) e dopo il lancio di una linea di profumi assai apprezzati, Van Noten ha annunciato il suo imminente congedo dalle scene. Anche in questa occasione, pur angustiando molti, Van Noten è stato lodato per il suo senso di misura e di responsabilità: decidere di allontanarsi dalle scene su una nota alta, dopo aver assicurato il futuro del proprio brand, ha rappresentato per molti un esempio raro in uno scenario della moda dove non solo il ricambio generazionale è spesso difficoltoso ma anche in cui sempre più designer del passato, finite le cose da dire, causano la stagnazione del proprio brand. Non che questo fosse il caso di Van Noten. Le sue ultime parole sul brand, sono una chiusura perfetta, che paragona il suo lavoro creativo al suo amatissimo giardino: «Il brand ora sta fiorendo. Come in un giardino, si decide cosa piantare e a un certo punto continua a fiorire».