A Guide to All Creative Directors

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Il problema di Gucci era davvero Sabato De Sarno?

Nè il management nè il team commerciale del brand sono privi di colpe

Il problema di Gucci era davvero Sabato De Sarno? Nè il management nè il team commerciale del brand sono privi di colpe

Gucci è senza direttore creativo, ancora. Stamattina, con uno stringatissimo comunicato stampa, Kering ha annunciato la conclusione della sua collaborazione con Sabato De Sarno che è stato ringraziato per la sua «lealtà e professionalità» e per la sua «passione e dedizione» dal CEO del brand, Stefano Cantino, e dalla vice-CEO di Kering incaricata del Brand Developement, Francesca Bellettini. Il brand ha anche annunciato che la prossima sfilata co-ed del brand, alla Milan Fashion Week, sarà disegnata dallo studio di design del brand – facendo presumere, dati i tempi di realizzazione della collezione, che la separazione tra i due sia avvenuta in realtà diversi mesi fa, come anche lasciavano preludere alcuni indizi disseminati su Instagram nelle stories dei suoi collaboratori. Poco si sa del dietro le quinte di questa separazione, anche se i sospetti che circolano nell’industria paiono suggerire che l’ormai ex-direttore creativo sia stato sottoposto a crescenti pressioni dai piani alti del brand per aumentare performance commerciali che, tra decisioni creative e comunicative valide ma poco incisive e una crisi del lusso globale che sta mettendo in difficoltà anche i più grandi brand sul mercato, invece di crescere sono scese in una spirale drammatica. Ma cos’è che non ha funzionato esattamente? Si potrebbe dire che la direzione creativa di De Sarno non fosse partita sotto i migliori auspici: la prima collezione da lui firmata per il brand non aveva suscitato nella stampa un enorme entusiasmo ed era stata inoltre molto penalizzata da un repentino cambio di location all’ultimo minuto, che aveva tolto allo show il suo essenziale contesto che avrebbe dovuto essere un enorme takeover di quasi tutta Brera. Non avesse piovuto, quel giorno, forse avremmo valutato il primo show diversamente – anche se, al contempo, una prima falla nel progetto emergeva a livello della collezione stessa, da cui emergeva sì la nozione di una ripulitura estetica del brand ma che non istradava questo minimalismo verso una precisa direzione estetica. Mancava la meraviglia e la novità, che è il sangue della moda, era assente e il brand è passato da un’overdose di contenuto a una sua completa assenza.

Le potenziali falle nella strategia del brand potrebbero essere state tre. La prima ha riguardato una precoce e forzata celebrazione di De Sarno come nuovo messia della moda quando il fascino stesso del direttore creativo era la propria normalità e concretezza, le quali sono state reclamizzate da un lato con un facile sentimentalismo e dall’altro con un entusiasmo artificioso, mettendo di fatto il carro davanti ai buoi e preparando il terreno per scetticismo e delusione. La seconda (e più grave) è stata l’insicurezza da parte dei vertici Kering nell’imprimere una svolta all’estetica di Gucci, aggrappandosi sul lato comunicativo a un minimalismo intellettuale ma su quello commerciale a una logomania antiquata, creando una dissonanza tra il prodotto in negozio e quello in sfilata che poi, a causa del price point elevatissimo, ha determinato il crollo delle vendite – una spinta contraddittoria riscontrabile anche sul piano del design dei prodotti, minimalistici ma comunque dotati di branding invasivi, o comunque dotati di aggiornamenti superficiali e non necessari che non erano né minimalisti né realmente massimalisti. La terza è stata una strategia di comunicazione svolta secondo tutti i crismi del grande rilancio ma piegata da una serie di scelte un po’ sciagurate e contro-intuitive: l’albero di Natale in Galleria Vittorio Emanuele II inspiegabilmente trasformato in una montagna di plastica bianca; la seconda sfilata menswear identica alla prima womanswear che ha annientato ogni senso di novità; la collezione di abiti da sera presentata durante l’ Art+Film Gala a Los Angeles che avrebbe potuto essere il pezzo forte del primo show a Milano; il film-agiografia su De Sarno che doveva essere una presentazione del designer ed è diventato la forzata autocelebrazione di un debutto in realtà molto tiepido; “esperienze” sull’Apple Vision Pro che nessuno aveva mai davvero chiesto; le esangui campagne su sfondo bianco di David Sims; collezioni per il Capodanno Cinese e per il Natale per cui lo sforzo immaginifico è stato inesistente. Come ha fatto Gucci a non farci dire “wow” nemmeno una volta in due anni? 

@claudiapotycki #greenscreen #sabatodesarno #gucci #direttorecreativo #tiktokfashion suono originale - Claudia Potycki

Un altro punto essenziale è stato che Kering ha fallito nel tutelare le intuizioni corrette di De Sarno. Dopo il suo show non solo la canzone Ancora di Mina è riaffiorata nella coscienza collettiva e ha trovato diffusione mentre il rosso borgogna, lanciato proprio da Gucci come “Rosso Ancora”, è stato salito del 365% nelle ricerche di Google nel giro di un anno diventando il colore di stagione ma senza tradursi in vendite per il brand che l’aveva lanciato. Non è semplice capire perché questo fenomeno si sia verificato e forse il discorso qui riguarda questioni più ampie che toccano tutti i brand di moda di oggi: sicuramente si sarebbe dovuto investire di più e meglio su quel colore con prodotti più mirati, ma c’entrano anche da un lato la discontinuità fra passerella e negozio; dall’altro un price point troppo elevato che ha creato una forte confusione tra prodotto più elevato e prodotto entry-level. Sicuramente ha influito molto una fortissima enfasi sul prodotto che si è però tradotta in un’assenza di contenuti e, ci si passi il termine, di worldbuilding sul piano degli show, trasformatisi in “lookbook dal vivo” ma il vero problema, comunque, è che De Sarno è il volto pubblico di una debacle commerciale i cui autori sono stati altri: i manager prima di tutto e poi i team di visual merchandising e commerciali. Proprio da queste figure distanti dai colpi dell’opinione pubblica è venuta una strategia che ha reso evidente come, chi dirige e controlla il brand, non sembra averne presente la storia (con i suoi alti e bassi) né l’appeal sul pubblico. Gucci è un brand hollywoodiano, in un certo senso edonistico, che trae forza dal fascino del jet-set, dalla vita di ricchezza e di piacere che promette. Come per tutti i brand, gli abiti devono essere portabili ma questo non significa che debbano essere dimenticabili.

Gucci sconta forse la sua posizione problematica di “primo della classe” di Kering. Non solo le aspettative nei confronti del brand sono elevatissime ma l’eccessiva preoccupazione e premura nei confronti di un periodo difficile per il brand ha portato i manager ad aggravare la malattia moltiplicando le medicine quando sarebbe bastato, ci si passi la metafora, un periodo di riposo e di dieta sana. Ma la posta in palio era troppo alta. E dispiace molto sia perché De Sarno, alla fine, è diventato l’agnello sacrificale che lava i peccati dei dirigenti; sia perché lui era una scelta giusta per un brand che iniziava a piegarsi sotto il peso della stravaganza di Alessandro Michele, sia perché si inaugurava effettivamente un momento di ritorno alla concretezza del prodotto che si sarebbe potuto sfruttare con una strategia più centrata e un vero ripensamento del modello di business di un brand che avrebbe dovuto tornare ai fondamentali e si è invece perso provando a imitare altre realtà che funzionano secondo le proprie regole e i propri ritmi. In breve, tutto sembra risolversi nell’insicurezza, impazienza e nella mancanza di fiducia di Kering verso i direttori creativi: se il brief che viene dato è il quiet luxury, perché continua a dilagare la logomania? Perché dei 15 cappotti visti alla prima sfilata maschile solo due sono nello store? I manager temono che il lavoro del designer da loro scelto non funzioni? E, quesito ancor più grave, sono consapevoli di quali prodotti potrebbero o meno vendere e di cosa stanno mettendo in commercio? La desiderabilità di un brand parte sempre da una visione precisa e audace, ma anche autentica, che non ha niente a che fare con il raziocinio di un analista convinto che inserire una banda rossa e verde nei punti meno necessari possa per miracolo riattivare le vendite.