L’intelligenza artificiale ha bisogno degli umanisti Filosofi, linguisti e storici possono contribuire a rendere l’AI più umana

Il dibattito sull’intelligenza artificiale è spesso tempestato da domande su quanto queste tecnologie siano pericolose per l’essere umano, quando prenderanno il nostro lavoro e quanto la nostra vita sia cambiata e cambierà nel futuro, ma sempre di più emerge una domanda molto più umana e naturale: come dobbiamo convivere con questa tecnologia? Per rispondere ci stiamo affidando sempre di più a professionisti che apparentemente non hanno competenze STEM, ma provengono da campi umanistici. Le scienze umane, troppo spesso considerate fragili o addirittura “inutili” per il mercato del lavoro, stanno riscoprendo una centralità fondamentale proprio grazie all’AI. A dirlo non sono solo accademici nostalgici che tirano l’acqua al loro mulino, ma anche professionisti del settore come Steven Johnson, direttore editoriale di NotebookLM di Google Labs, il quale ha dichiarato a Business Insider che le competenze umanistiche sono «più preziose che mai» nello sviluppo dell'AI. Il motivo risiede nel fatto che queste tecnologie interagiscono con persone, culture, valori, e quindi serve qualcuno che sappia porre le domande giuste e complesse per interpretare il contesto e, di conseguenza, insegnare le cose giuste alla macchina.Amanda Askell, filosofa che si occupa di finetuning presso la startup generativa Anthropic, riflette sul suo ruolo riguardo Claude (il chatbot di Anthropic che si pone come competitor di ChatGPT) e, in un’intervista rilasciata al Time, ammette che è proprio grazie alla sua formazione filosofica che è riuscita a rendere il chatbot più amichevole, curioso e creativo.

Askell ha lavorato sulle domande e sul linguaggio umano più che sulla programmazione tecnologica, per far sì che Claude ammetta l’incertezza, si metta in discussione e chiarisca di non possedere sentimenti, memoria o autocoscienza. In questo modo l’utente potrà avere un’interazione più consapevole e critica con l’AI. È il paradosso del nostro tempo: l’AI, per funzionare bene, ha bisogno di chi sa sfidare queste nuove tecnologie intellettualmente, di chi si sa interrogare e di chi non può, o non riesce, a imitare completamente. Quindi si parla di filosofi, letterati e umanisti.Infatti anche il mondo del lavoro, che sempre di più si sposta verso competenze tecnologiche nel campo AI, sta subendo un ritorno alle humanities. Secondo un rapporto del World Economic Forum, entro fine 2025 tra le competenze più richieste nel mercato del lavoro globale ci saranno pensiero analitico, innovazione, risoluzione di problemi complessi e creatività. Tutte queste skills hanno un forte legame con le scienze umane e sociali perché tali studi sono in grado di formare la flessione critica necessario per affrontare le sfide poste dalla tecnologia. Anche Fabio Costantini, CEO di Randstad HR Solutions, è di questa idea. In un articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, afferma che «l’intelligenza artificiale sta rapidamente trasformando il modo in cui lavoriamo, viviamo e prendiamo decisioni. Ma [...] rischia di ridurre la capacità dell’uomo di sviluppare competenze critiche e creative. [...] Le humanities servono a superare i limiti dell’AI». Solo un pensiero critico può riconoscere bias nascosti, progettare interfacce inclusive e immaginare scenari che vadano oltre l’efficienza. In questo contesto si viene dunque a creare un’insolita alleanza tra AI e umanisti anche nel mondo accademico e di ricerca. Strumenti di machine learning permettono agli storici di analizzare migliaia di documenti, agli archeologi di ricostruire siti perduti, ai linguisti di esplorare le mutazioni del linguaggio in tempo reale.