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Saint Laurent va alla conquista di Cannes

La moda è cinema, il cinema è moda

Saint Laurent va alla conquista di Cannes La moda è cinema, il cinema è moda

Il mondo della moda sta attraversando un momento di ridefinizione di ruoli in cui i brand, trasformatisi nel corso dei decenni in giganti commerciali e istituzioni culturali, stanno allargando il proprio ambito di azione dall’abbigliamento al lifestyle, espandendosi in direzioni e categorie nuove che vanno dai profumi agli abiti da sposa, dagli alberghi ai ristoranti. Ma l’ambito più curioso in cui diversi brand hanno deciso di espandersi è il cinema che, insieme alla televisione, è il mass media per eccellenza: e se brand come Dior e Chanel hanno collaborato con il mondo della pellicola in maniera vagamente ufficiosa, fornendo accesso agli archivi, usando i propri spazi come location e in diversi casi firmando i costumi dei personaggi (come ad esempio ha fatto Prada con Elvis) è Saint Laurent il brand che si sta tuffando più a capofitto nel mondo di Hollywood. Dopo aver collaborato con Gaspar Noè al corto Summer of ’21 e a Lux Æterna, e con Pedro Almodovar al mediometraggio Strage Way of Life che la critica però non ha molto amato, il brand ha deciso di puntare al cuore del cinema francese e internazionale: il Festival di Cannes. L’azienda sussidiaria di Saint Laurent, di nome Saint Laurent Productions, ha infatti annunciato di aver co-prodotto tre dei film che andranno in competizione a Cannes, tutti progetti ambiziosi e di profilo altissimo: Parthenope di Paolo Sorrentino, lo sci-fi filosofico The Shrouds di David Cronenberg e il musical Emilia Perez di Jacques Audiard. Ma perché a un brand di moda dovrebbe interessare il mondo del cinema? Il discorso è doppio e riguarda tanto la percezione e visibilità del brand che le sinergie che ne possono derivare.

Quello del movimento verso il cinema è un passo decisivo che non solo Saint Laurent ha intrapreso: risale a qualche mese fa l’istituzione, da parte del gruppo LVMH, di 22 Montaigne Entertainment mentre risale ad ancora prima l’acquisto da parte della famiglia Pinault, per tramite del Gruppo Artemis, della leggendaria CAA, la Creative Artist Agency, ovvero la più importante agenzia di talent management di Hollywood. Tutte mosse giunte in sincronia con l’arrivo di una nuova schiera di serie tv incentrate sulla moda, alcune riuscite come quella su Balenciaga; altre ben prodotte ma decisamente più criticate come The New Look o l’imminente show su Karl Lagerfeld. Nel frattempo, Jonathan Anderson ha collaborato con Luca Guadagnino ai costumi di Challengers vestendo Zendaya (che, tra parentesi, è sotto contratto proprio con la CAA di cui i Pinault detengono una quota di maggioranza) dentro e fuori lo schermo – un rapporto che illustra bene la seconda motivazione dell’interesse dei brand di moda nel cinema: se dall’anno scorso Artemis e i Pinault dietro di essa trarranno profitti dai propri contratti di management con star che in certi casi sono ambassador della rivale LVMH; è notevole come ad esempio l’attrice Maisie Williams, ambassador ufficiale di Dior, interpreti la sorella del “vero” Dior in The New Look o come Charlotte Gainsbourg, che invece è ambassador di Saint Laurent, sia più o meno presente nei diversi sforzi del brand che vanno dai ruoli protagonisti nei cortometraggi fino al suonare il pianoforte per chiudere una delle loro sfilate. Attori e star, in breve, diventano sia ambassador che “prodotti” del brand stesso. La cosa rappresenta un precedente non tanto per la mescolanza, già esistente da decenni, di moda, cinema e pubblicità ma perché adesso i gruppi industriali della moda sono abbastanza grandi da riunire tutto sotto lo stesso metaforico tetto: chi produce il film vende i vestiti indossati dagli attori sul red carpet, gestisce il lavoro degli attori, li scrittura per pubblicità e si fa pubblicità più o meno occulta tramite il film. Tutto può diventare profitto.

C’è solo una grave sfida: l’autenticità. È nota l’avversione di qualunque brand a controversie, mosse potenzialmente rischiose e situazioni lesive della propria immagine – che è il motivo per cui i cattivi nei film non usano mai un iPhone. Bisognerebbe in breve assicurarsi che le esigenze di pubblicità e percezione del brand non impattino in alcun modo la scrittura e regia del film nella maniera in cui impattano il lavoro dei designer per le loro collezioni. E che questa testa di ponte gettata tra moda e cinema funzioni davvero non è cosa scontata: come dicevamo Strange Way of Life è stato un prodotto ricevuto da un’accoglienza incerta, dato che non era proprio pensato né per la sala né per la televisione, è parso un prodotto un po’ arrangiato ad alcuni e in generale anche chi lo ha apprezzato non ha ben intuito la sua ragion d’essere, la sua destinazione d’uso o il suo target designato. Adesso la strategia pare cambiata con il prossimo Festival di Cannes: volendo leggere tra le righe delle dichiarazioni, il brand tiene a far vedere il proprio titolo di co-produttore, quasi a dire che il brand ha collaborato alla creazione dei film ma senza (speriamo) evidenti ingerenze commerciali o comunque senza quel tipo di interesse invasivo che hanno i brand di pubblicizzarsi esplicitamente a ogni costo.