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La moda è una questione di soldi

Il divorzio tra Gucci e Alessandro Michele passa soprattutto per i conti del brand

La moda è una questione di soldi  Il divorzio tra Gucci e Alessandro Michele passa soprattutto per i conti del brand

Mai come nella settimana da poco finita il mondo della moda si è idealmente diviso tra due fazioni, nate dopo il divorzio tra Alessandro Michele e Gucci, che potremmo grossolanamente definire come idealisti e realisti. Se da un lato l’addio del designer romano al brand di Kering ha scosso le coscienze collettive per il modo in cui è arrivato, quello di un rumor diventato in poche ore realtà, dall’altro ha aperto il dialogo su quali debbano essere le priorità per un brand di moda, tra chi ha invocato la sacralità dell’arte e chi, forse in modo cinico e spietato, ha ridotto l’intera conversazione al prodotto finale: i soldi. Nelle mille teorie nate nel tentativo di spiegare l’accaduto, la più accreditata vorrebbe il presidente di Kering François-Henri Pinault desideroso di accendere “a fire under the brand”, lavorare in modo più rapido ed efficace, evidenziando la necessità di un cambio di marcia in un brand che, secondo più di un commentatore, necessitava di una svolta in un periodo di stanca.

Chiariamo subito un dubbio: nel gioco dei troni dei direttori creativi, il regno di Michele da Gucci è andato ben oltre il tempo stimato in cui un designer resta al comando di un brand. Se i tempi in cui un direttore creativo poteva mantenere la sua carica per oltre cinquant’anni sono bel lontani, i quasi otto anni di Michele, ricolmi di successi e rivoluzioni tematiche e stilistiche, rappresentano un’eccezione a quella regola che vuole i cinque anni come termine massimo per la durata dell’incarico di un designer al comando creativo di un brand. Un dato che sicuramente giustifica le recenti difficoltà avute da Michele nel cambiare passo a Gucci, quelle che arrivano in un mondo che richiede ormai ritmi sovrumani, ma che al tempo stesso scansa quella retorica che vorrebbe la fine del rapporto come un’anomalia, una scorrettezza da parte di un’azienda che, volendo essere concreti, ha interrotto il rapporto lavorativo con un suo dipendente perché non più soddisfatta del suo operato.

Che ci piaccia o meno Gucci, così come il 99,9% dei brand che frequentano le passerelle delle Fashion Week ha come bussola, in primis, il risultato economico nella sua forma più semplice e banale, al punto che al primo momento di incertezza Pinault ha avuto pochi scrupoli a mandare a casa l’artefice della rinascita del brand che oggi vuole rivoluzionare. Incertezza che secondo qualcuno significa mercato asiatico, con la Cina come principale snodo di una crescita che dalla pandemia in poi ha visto Gucci protagonista di una crescita lenta, troppo rispetto a quella dei suoi rivali. Già lo scorso anno BoF riportava che «Gucci’s sales fell 22 percent to €7.4 billion. That decline is roughly in line with consultancy Bain & Company’s estimates for the global luxury industry overall, but far lower than that of other big and influential brands which rebounded more quickly from coronavirus lockdowns this spring», anticipando un trend che ha poi ritrovato conferma nelle parole di Vogue Business, che lo scorso aprile individuava la causa del rallentamento di Gucci proprio nei risultati in Cina, tanto da spingere il brand a creare un ruolo ad hoc per riorganizzare le operazioni locali chiamando l’ex Tiffany & Co. Laurent Cathala come President of Greater China Fashion Business per separare le sue attività di orologeria e gioielleria da quelle della moda.

L'incertezza nel mercato cinese dovuta ai continui lockdown e alle scelte drastiche di Xi Jinping hanno rappresentato e rappresentano un'incognita talmente grande per i gruppi della moda da aver spinto Kering a giocare di difesa nei confronti del suo brand più importante, soprattutto quando si parla di un mercato come quello cinese destinato a diventare entro il 2025 il più importante per il mondo del lusso. Oggi, con la notizia dell’addio di Michele ancora calda nelle rotative dei giornali, è l’analista Luca Solca a fare eco a quelle parole, parlando di “brand fatigue” e invocando un nuovo capitolo creativo per il brand di Kering. Che ci piaccia o meno, oggi, accanto a chi commenta la moda dal front row di uno show, c’è anche chi lo fa calcolatrice alla mano, davanti a uno di quelli schermi pieni di indici variabili e tassi d’interesse che spesso ci sembrano troppo complicati per essere presi in considerazione.

Quando Solca parla di “new creative chapter” però non si riferisce certo al lato romantico della moda, non lo fa con in mente i gemelli di Gucci Twinsburg o con le teste mozzate della Fall 2018 - il momento più alto dell’era Michele, ma con il cliente finale, quello che probabilmente non ha idea di chi sia il direttore creativo del brand di cui sta comprando una t-shirt il cui valore esagerato per lui è ripagato unicamente dal logo in bella vista.

Il cliente casuale, quello non fidelizzato insomma, rappresenta il vuoto ideale che c’è tra la passerella e il negozio, la nemesi di chi vede la moda come forma d’arte ma paradossalmente il suo migliore alleato nella sopravvivenza della visione artistica che ci piace custodire nei nostri feed Instagram. La fine del rapporto tra Gucci e Alessandro Michele - il cui operato rimane e rimarrà indelebile nel mondo della moda, non è solo la fine di uno dei momenti più prolifici per il fashion system, ma anche un campanello d’allarme per risvegliarci da un sonno nato dopo un sogno durato quasi otto anni.