Vedi tutti

Il vero problema di Bitcoin è l'inquinamento

Secondo un recente studio, il mercato della cryptocurrency ha le stesse emissioni della Nuova Zelanda

Il vero problema di Bitcoin è l'inquinamento Secondo un recente studio, il mercato della cryptocurrency ha le stesse emissioni della Nuova Zelanda

Quando si parla delle emissioni di anidride carbonica e di altre sostanze nocive nell’atmosfera si pensa sempre agli stabilimenti industriali, agli allevamenti intensivi e agli scarichi di sostanze chimiche nei fiumi. All’opposto il mondo del digital, essendo per lo più incorporeo, sembra porre una soluzione alle emissioni di carbonio e allo spreco di materie prime ma la fisica ci dice che niente è incorporeo e infatti, secondo uno studio di Technische Universität München, una crypto-currency come il Bitcoin ha prodotto nel 2019 fino a 22 milioni di tonnellate di Co2 l’anno – una quantità paragonabile alle emissioni annuali di una città come Las Vegas. La quantità di queste emissioni è letteralmente esplosa verso l'alto negli ultimi due anni, e ha messo molte autorità economiche e nazionali di fronte alla questione dell'inquinamento causato dai BitCoin.

Ci si domanderà: “Come è possibile che una moneta virtuale possa produrre Co2?” La risposta è l’elettricità. Infatti l’energia elettrica è l’unica forma nella quale il Bitcoin esiste fisicamente e l’intero sistema del cryptocurrency richiede un costante apporto di energia elettrica per restare funzionare. Secondo il Bitcoin Energy Consumption Index consultabile al sito Digiconomist, infatti, il consumo energetico della cryptocurrency è salito quest’anno a 77 terawatt ogni ora che, in termini più semplici, è identico al consumo energetico dell’intero paese del Cile. Le emissioni di carbonio, invece, sono identiche a quelle della Nuova Zelanda – una quantità che, ridotta alla singola transazione, equivale a tenere acceso un PC guardando video di YouTube per 52.668 ore di fila, ossia più o meno sei anni di stream ininterrotto e consuma la stessa energia elettrica che un’unità domestica americana consuma in 22 giorni.

Secondo il modello sviluppato da Digiconomist, che è forse oggi lo strumento pubblico più sofisticato per tracciare il peso ecologico del Bitcoin, è anche possibile prevedere i futuri consumi. Ad esempio il modello prevede che i miners di BitCoin spenderanno il 60% dei propri ricavi in energia elettrica e si fermeranno solo quando i costi energetici. Secondo Smart Energy International, il 39% del BitCoin mining mondiale utilizza energie rinnovabili mentre un più preoccupante 61% impiega energie non rinnovabili, derivate ad esempio da carbone o altri combustibili fossili. Ma i dati non devono scandalizzare: l’attività mineraria per la sola estrazione di oro consuma cinquanta volte quanto il BitCoin mining, tanto che secondo l’associazione Earthworks, per produrre un singolo anello nuziale vengono generate circa 20 tonnellate di scarti. Una possibile soluzione al problema dei consumi del BitCoin potrebbe essere già esistente: si tratta di cambiare i protocolli di sicurezza da sistemi proof-of-work, che richiede l’attivazione di complicati algoritmi che confermino la legittimità della blockchain e consumano sempre più energia, a sistemi proof-of-stake che invece richiedono a ogni utente di dimostrare il possesso di criptovaluta e dunque taglierebbero i consumi.