"Il rifugio atomico" è un’occasione persa Netflix continua con i suoi buchi nell'acqua
Poche serie originali sono riuscite a radicarsi su Netflix quanto quelle spagnole. Tra queste spicca La casa di carta, diventata un titolo simbolo della piattaforma al punto da generare uno spin-off di successo, Berlino, ora alla sua seconda stagione. Non tutti i tentativi, però, hanno avuto lo stesso impatto: molte produzioni si sono spente rapidamente, mentre altre hanno trovato un seguito inaspettato. È il caso di Élite, capace di rinnovarsi attraverso nuove generazioni di personaggi, o di Olympo, uscita di recente e pur non avendo ancora raggiunto la stessa notorietà, considerata da alcuni persino più interessante. In questo panorama, a contendersi oggi il trono vacante è Il rifugio atomico, ideato da Álex Pina, il creatore de La casa di carta e di Vis a Vis, insieme a Esther Martínez Lobato, con cui aveva già firmato Sky Rojo (2021-2023), sempre per Netflix.
Billionaires' Bunker, a new series from the creators of La Casa de Papel, premieres September 19.
— Netflix (@netflix) September 2, 2025
A group of billionaires are forced to coexist after locking themselves in a luxury bunker due to the threat of an unprecedented global conflict. pic.twitter.com/tAwi2R6cq6
Ciò che ci si aspettava perciò dallo show era tutto un programma. Intrighi, relazioni torbide, piani complessi da dover sbrogliare. Ma è impossibile non notare, durante la visione dello show, come Pina sia rimasto incastrato negli stessi meccanismi che aveva contribuito ad oliare. Rimanendo fermo, immobile nella messa in moto di un racconto che, per otto puntate, gira solo e stancamente su se stesso, ripercorrendo pattern già sperimentati e, soprattutto, arrivando al grado zero dell’intrattenimento, per nulla stimolante o pungolante per lo spettatore. Tutto è già apparecchiato per il pubblico de Il rifugio atomico, dove ogni scena viene ripetuta un numero abbondante di volte, così come i dialoghi, sia per allungare il brodo visto che si ha una sola idea da dover spremere. Un annientamento cognitivo che riduce lo show a una qualsiasi telenovela generalista.
Alla soglia di un’imminente guerra nucleare, un gruppo di miliardari viene fatto scendere in un bunker segreto e costoso dove trascorrere al sicuro in camere sofisticate e spazi comuni di lusso i momenti più devastanti della terra. Un nascondiglio momentaneo che diventa permanente quando fuori scoppia la terza guerra mondiale, alla quale gli ospiti assistono dai piccoli schermi della gabbia dorata. Dalle premesse de Il rifugio atomico, così contemporaneo se si pensa che siamo ogni giorno sull’orlo del collasso e con protagonisti dei miliardari che sono allo stesso tempo vittime e carnefici, la serie avrebbe potuto svolgere una riflessione avvelenata e analitica, attenta e piccata sulla direzione che ha preso il mondo, coinvolgendo discorsi dalla caduta delle ideologie e degli imperi economici alle disparità di classe fino alla lotta sociale. Invece, ciò che si limita a fare, e che soprattutto desidera, è raccontare di come un gruppo di persone chiuse in un bunker preferiscano parlare di sesso e sentimenti, tradimenti e sciocchezzuole mentre fuori c’è la morte.
idk which billionaires need to hear this but you can't stay in your bunker forever
— The Ghost of Woke Grok (@JEllulz) August 20, 2025
L’impoverimento narrativo e lessicale dello show, i suoi intrecci così complessi ma in realtà di una banalità disarmante, annacquano qualsiasi possibilità di salvezza per lo show, la stessa a cui non sanno come aggrapparsi i protagonisti. E a cui nemmeno interessa visto che sembrano dimenticare nel giro di un episodio che il mondo sopra la loro testa sta bruciando, che ogni cosa è andata in malora e niente sarà più come prima. Che il concetto possa essere che, in fondo, ai ricchi non importa cosa accade a chi perisce al di fuori se loro stanno bene potrebbe essere valido e infinitamente degno di disanima. Ma si capisce presto che non è certo nell’intento de Il rifugio atomico avanzare un’indagine a cui, al suo posto, viene preferito il melodramma più pacchiano. Un carrozzone superficiale e squilibrato. Una serie che dimostra che Netflix ha saputo vitalizzare i propri contenuti originali, ma che ha lasciato in eredità anche tante cose sbagliate.