"Alpha" di Julia Ducournau è la delusione di questo Cannes 2025 Dopo Titane la regista e sceneggiatrice presenta il suo film su una misteriosa malattia che trasforma le persone in statue

La Palma d’oro a Cannes di Titane vinta da Julia Ducournau nel 2021 aveva fatto molto rumore. Seconda regista nella storia ad aver conquistato l’ambito premio della Croisette - in “soli” settantacinque anni di festival - la regista e sceneggiatrice aveva riportato l’attenzione sul body horror di cui si sarebbe poi tanto riparlato nel 2024 con The Substance, aprendo un dibattito sulla centralità del genere o meno in eventi blasonati e portando persino Nanni Moretti a condividere un post sui social in cui esprimeva (ironicamente) il dissenso al premio assegnato. Era fuori discussione, dunque, che la pressione per il terzo film fosse alta, come lo era il fatto che il palco designato per presentarlo non potesse essere altro che il festival che l’aveva portata alla ribalta. L’ansia da prestazione, però, si è percepita tutta, e porta come titolo Alpha, lungometraggio in cui una misteriosa malattia trasforma la pelle delle persone in marmo e che si trasmette nella stessa maniera dell’AIDS.

Alpha è anche la protagonista della pellicola, l’attrice Mélissa Boros, tredicenne irrequieta che dopo una serata con gli amici torna a casa con un tatuaggio e la paura di essere stata contagiata. Timore che ha anche la madre, interpretata da Golshifteh Farahani, la quale deve badare al contempo alla figlia mentre nella loro vita è tornato il fratello tossicodipendente Amin, l’attore Tahar Rahim. Se il focus sui corpi è ciò su cui da subito Ducournau sembra concentrarsi, come era stato per l’incesto tra macchina e umano in Titane e nella ricerca di carne col debutto Raw, presto la narrazione è pronta a spostarsi sempre più su quello che diventa un vero e proprio dramma famigliare, perdendo progressivamente le coordinate di un’opera che sembra sempre sul punto di esplodere e che, invece, non lo fa mai. Nulla di ciò che Ducournau semina finisce poi per avere uno scopo. La malattia che cambia il corpo resta la miccia per il vero campo d’analisi dell’autrice, che se con Raw faceva del fisico, ma soprattutto del sangue la rappresentazione simbolica del sesso, in Alpha è il terrore della morte che il film rincorre fino alla fine. Ma i corpi vengono dimenticati dalla regista, il contagio è un espediente e andrebbe anche bene che così rimanesse se la storia non si perdesse nel bisogno smodato di Julia Ducournau di colpire. L’autrice ha pensato in grande ma, come se ormai il suo solo compito fosse quello di scioccare, ha dimenticato che per farlo non sono necessari flash improvvisi o sequenze scollegate per turbare, ipoteticamente, lo spettatore.

La smania di cinema che ribolle in Alpha sfugge di mano alla regista, che abbandona persino il suo tocco vorace, fisico, la sua furia stilistica si disperde come la polvere rossa che gravita per la pellicola a diffondere un’aria apocalittica. Unico agente visivo rilevante per una fotografia (di Ruben Impens) alternata tra uno ieri più luminoso e un oggi grigio, metallico, alienante, freddo anche nelle reazioni che provoca. Alpha vuole di più, sempre di più, ma la malattia rimane uno sfondo lontano, le sue vittime statue solo da osservare (“Sei bellissimo”, dice la protagonista a un malato) e il confine tra vita e morte lotta tra il desiderio di oblio del personaggio di Amin e la resilienza forzata della sorella - bravissimo Tahar Rahim, più di quanto al film serva. E, quando è il momento di tirare le fila, Alpha finisce per disintegrarsi. La logica salta, il cinema fa capolino, ma non c’è nessuno a controllare il portale che sposta il film dal momento presente al passato, dalla lucidità delle procedure mediche - o anestetizzanti, come per l’eroina di Amin - alla forma ascetica che domina il finale. E, così, ciò che di tangibile abbiamo amato del cinema di Julia Ducournau diventa improvvisamente inconsistente. Non lasciando nessuna cicatrice nello spettatore, sfuggendo come cenere tra le dita.