Post Mortem è l’ancora più sorprendente disco di ritorno de I Cani Prime osservazioni, dalle affinità con Springsteen e Battiato alle citazioni letterarie

Ci sono voluti nove anni per fare decidere al cantautore romano Niccolò Contessa di tornare sulle scene con un nuovo album della sua creatura musicale. i cani, scritto tutto minuscolo, è un gruppo che in realtà è una vera e propria one man band in cui Contessa scrive, suona, canta e registra. Un nome che ha segnato un’intera generazione di indiekids italiani, composta da assidui lettori di Rockit e puntuali frequentatori del Miami, il festival dell’indie italiano per eccellenza. Tre album in tutto dal 2011 al 2016 - Il sorprendente album di esordio de I Cani (2011), Glamour (2013) e Aurora (2016) – tanto è bastato a Contessa per diventare un culto e poi sparire nel nulla, come si confà a un vero mito, vedi Mina, Battisti e altri ancora. Potrà sembrare un’esagerazione, ma parliamo di un progetto a cui ancora oggi molti attribuiscono nel bene e nel male la responsabilità di aver inventato l’indie-italiano per come lo conosciamo oggi. È emblematico il verso di Willy Peyote «I Cani hanno inventato l’indie quindi ora lo fanno tutti da cani».

È possibile che Contessa si sia sentito addosso il peso di questa responsabilità e si sia chiamato fuori o che, addirittura, si sia sentito in colpa come Thom Yorke quando realizzò di aver contribuito alla creazione dei Coldplay e di tutta una serie di band epigone. Di sicuro, in tutto questo tempo, Contessa non è semplicemente andato a letto presto, ma ha continuato a lavorare con la musica in una posizione più defilata, come produttore e compositore di colonne sonore. Ha pubblicato anche qualche sporadica canzone, in solitaria e in collaborazione coi Baustelle, ma nessuno si aspettava che tornasse così all’improvviso con un intero album. Ormai non ci credevano più nemmeno quelli del gruppo facebook Aggiornamenti quotidiani sul quarto album di Contessa il cui ultimo post - un ironico «Non è uscito» -  risaliva al 15 dicembre 2024. Da ieri, invece, l’album - intitolato emblematicamente Post Mortem - è divenuto realtà con un breve annuncio semplice e diretto pubblicato dall’etichetta 42 Records: «Non se lo aspettava nessuno. Lo stavamo aspettando tutti. “post mortem” disponibile da ora in streaming e download. Buon ascolto».

Innanzitutto, la copertina dell’album sembra essere un riferimento a quella di Nebraska di Bruce Springsteen, anche se purtroppo non ci sono conferme al riguardo. Il comunicato stampa rilasciato dall’artista non era molto “loquace”: «Al centro di tutto c’è la musica, quindi zero chiacchiere, zero immagine. Tutto quello che c’è da scoprire è nel disco». Il confronto tra le due copertine, in ogni caso, è particolarmente suggestivo: la foto sembra essere tagliata via estraendo un piccolo dettaglio da quella di Springsteen e il contrasto tra l’immagine in bianco e nero e il lettering rosso è molto simile, seppur un po’ più sbiadito: è un po’ come se il disco stesso de i cani si stesse autodichiarando un “Nebraska minore”, cosa che sarebbe abbastanza in linea col personaggio di Contessa. L’associazione tra i due album potrebbe avere un senso perché Nebraska è un disco che Springsteen ha scritto mentre stava attraversando un periodo particolarmente difficile della sua vita, durante il quale fece di tutto per sparire dai radar, chiudendosi in un isolamento autoinflitto. Si tratta di un disco alieno all’interno della sua discografia, scritto, registrato e pubblicato in completa solitudine, senza il supporto della sua famosa E-Street Band. Le canzoni sono scarni scheletri di chitarra e armonica che esplorano i lati più oscuri dell’animo umano: parlano di assassini, delinquenti, violenze fisiche e morali di vario tipo, mischiate a ricordi di infanzia, umiliazione e povertà. Sono canzoni che provengono da un luogo oscuro, dal quale Springsteen non sapeva come uscire. Non a caso, il verso più importante, usato in due canzoni diverse del disco, è quello che dice «Deliver Me From Nowhere» (Liberami dal nulla). 

 

Ecco, le canzoni del nuovo album de i cani sembrano provenire da quello stesso luogo, un posto sperduto tra il nulla e l’addio, per citare Clint Easwood. Pur riflettendo sonorità molto diverse rispetto allo scarno folk-rock di Nebraska - un mix di elettronica, industrial, new wave e lo-fi - suonano altrettanto cupe, dolorose e sporche, come se fossero sgorgate fuori da un tombino, sputate in superficie dalle profondità della terra o strappate via dal cuore di una notte di tempeste senza sonno. La scala cromatica che pennella il mood generale del disco non è dettata solo dal grigiore della copertina, ma anche da alcuni titoli - come buco nero, buio, carbone - che non lasciano nessuno scampo ai colori. Siamo lontani dai film di Wes Anderson e dagli altri “hipsterismi” di cui si cantava nel primo album, ma anche dal romanticismo malinconico di Aurora.

Buco nero parla della voragine interiore dentro cui inghiottiamo il nostro desiderio di ribellione contro le convenzioni sociali o più semplicemente il nostro bisogno di infrangerle (Non si piange ai matrimoni / Non si ride ai funerali e soprattutto Non si complica la vita alla gente con i tuoi problemi immaginari). Una tematica, quella dell’anticonformismo, che poi verrà ripresa anche a metà lavoro, nel brano intitolato f.c.f.t., acronimo di fare come fanno tutti. Un altro brano che procede letteralmente con il favore delle tenebre è buio: un lamento imbastito su sonorità elettroniche e industrial che mischiano Subsonica e Nine Inch Nails in egual misura: la paura del buio è la paura del nostro lato più oscuro, che dobbiamo comunque trovare il coraggio di affrontare perché «Per chi ha paura del buio / C'è poca luce nel mondo / C'è poco amore nel mondo». La mancanza di amore è evidente anche in carbone, che è praticamente un’istantanea di Scene da un matrimonio di Bergman in salsa pop, l’unica concessione alla tematica delle relazioni di coppia, che qui lentamente muore, bruciando non di passione ma di dolore e incomunicabilità. Non proprio un Carnevale di Rio insomma.

 

Forse l’unico brano che riesce a farci distendere con una specie di sorriso è colpo di tosse, una sorta di anomalia metanarrativa del disco. È un brano che nell’economia di un lavoro così monocromatico sembra davvero un lampo di luce più forte del sole, come recita l’incipit, oppure un vero e proprio colpo di tosse, qualcosa che fa saltare la puntina dell’ascolto, un glitch, un deja-vu di matrixiana memoria che per un attimo distoglie dai toni tendenzialmente più cupi di tutto il resto. Si tratta, però, pur sempre di un sorriso amaro, poiché la canzone altro non è che una disamina disincantata di «tutto quello che ci vuole» per fare una hit, come se esistesse davvero una ricetta da seguire per farlo (cosa che molto probabilmente molti producer di oggi pensano sul serio). A volte, canta Contessa, ci vogliono soltanto dieci anni di noia. Il disco è poi spaccato esattamente a metà dal requiem strumentale post mortem, che separa anche metaforicamente la prima e la seconda parte dell’opera come se ci fosse una vita prima e una vita dopo la morte. Un aspetto che verrà ripreso nell’ultimo brano, con rimandi alla poetica Torneremo Ancora di Franco Battiato. Un nome importante quello del cantautore siciliano che ritorna in mente anche e soprattutto nel cantato di uno dei due highlight letterari del disco: felice. In ciascuna metà del disco è presente, infatti, un riferimento letterario colto.

Se in Nebraska i punti di riferimento letterari di Springsteen erano i grandi autori americani del ‘900 - come Faulkner, Steinbeck e Flannery O’Connor - Contessa si affida invece a due giganti europei. In davos cita esplicitamente La Montagna Incantata di Thomas Mann: non solo il titolo fa riferimento al luogo in cui è ambientato il romanzo  – ovvero il sanatorio di Davos in Svizzera – ma i suoi protagonisti sono citati quasi tutti nella canzone. Chi conosce il testo di partenza non farà fatica a riconoscere il protagonista - Hans Castor - nell’«ingegnere» che non sa che parte prendere nella diatriba filosofica tra «il gesuita» nichilista Leo Naphta e l’umanista – «progressista rompicoglioni» - Lodovico Settembrini. Onde evitare dubbi c’è pure l’invaghimento amoroso del protagonista – Madame Chauchat - citata per nome. La strofa finale della canzone «Si è addormentato Sotto la neve / Credeva di essere nеll'aldilà / Ha visto tutto / Quello che è stato / E un pizzico di etеrnità» non è altro che la trasposizione musicale di una delle scene più importanti del libro in cui Castor si perde in una bufera di neve e ha una specie di epifania. «Non era più una nevicata, era una bianca tenebra caotica, uno scompiglio, era un eccesso fenomenico travalicante le zone moderate (...) A Castorp però piaceva vivere in mezzo alla neve». Insomma, in questo disco anche il bianco candore di una nevicata non è in contrasto col buio, ma quasi una sua continuazione naturale. 

@pietrofantini__ non avrò bisogno delle medicine degli psicofarmaci del lexotan #lexotan #icani #niccolocontessa #postmortem original sound - Pietro Fantini

Nella seconda parte dell’album, invece, Contessa fa riferimento a Kafka in un brano dal titolo ingannevole. felice è infatti un gioco di parole che fa riferimento a Felice Bauer, la prima fidanzata di Kafka a cui lo scrittore dedicò centinaia di lettere prima della separazione. Di veramente felice c’è molto poco in un questo brano che cita esplicitamente il protagonista de La Metamorfosi - «Gregor Samsa» -  trasformatosi in insetto - «Come un cane chiuso in casa che guaisce», «Come una di quelle macchine che tutto a un tratto non funziona / E va in frantumi senza una ragione». Ci sarebbe poi ancora molto altro da dire, dall’autoaccusa allo specchio contenuta nell’apertura di io al senso di colpa occidentale presente sia in colpevole che in nella parte del mondo in cui sono nato, ma per adesso ci fermiamo qui. Così come Nebraska si chiudeva con una piccola nota di speranza contenuta in Reason To Believe (Una ragione per credere), il nuovo disco de i cani si chiude con il piccolo spiraglio di luce di un’altra onda, o meglio con un’alternanza di luce e buio perché il brano sembra proprio alludere al ciclo della vita che si ripete all’infinito. Che stia parlando di reincarnazione o più prosaicamente degli alti e bassi della vita che a volte ti travolge, ti tiene la testa sott’acqua e poi ti fa tornare di nuovo a respirare è lasciato alla libera interpretazione dell’ascoltatore. «La vita va avanti», con questo semplice concetto si chiudeva la breve sezione dell’autobiografia di Springsteen dedicata a Nebraska. La sua l’ha fatto, così come l’ha fatto quella di Contessa e pure la nostra. Speriamo solo che per farle incontrare di nuovo non passino altri nove anni.