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A cosa servono i “sober coach”?

Di base a fare rigare dritto i VIP, ma a tutti potrebbe servirne uno

A cosa servono i “sober coach”? Di base a fare rigare dritto i VIP, ma a tutti potrebbe servirne uno

Durante uno dei red carpet del Sundance Festival, dove Dominic Fike si è trovato per promuovere il suo nuovo film Little Death, l’attore reso famoso da Euphoria (ma chi non è stato reso famoso da quella serie?) ha raccontato di come la presenza di una sober coach sul set, chiamata proprio per arginare invano il suo consumo di droghe, non fosse servita praticamente a nulla: «Quando ho partecipato a Euphoria, mi hanno dato una specie di coach con cui parlare. Era una donna a caso. Non avevamo nulla in comune. Non venivamo dagli stessi posti o dagli stessi problemi. È stato difficile accettare un consiglio da una persona del genere o fregarsene...» Evidenziando un problema forse più comune di quanto non si creda quando si discute di figure che operano nell’ambito della salute mentale, ovvero quello del trovare il comunicatore giusto, possibilmente non uno di quei burocrati delle emozioni da consultorio che parlano coi pazienti con un misto di condiscendenza e maternalismo, usando un tono secondo loro empatico ma che odora ancora delle pagine di un vecchio manuale e un gergo psicoterapico da Telefono Azzurro. Per l’appunto, un sober coach (detto anche “sobriety coach” o “recovery coach”) non è un terapeuta o uno psicologo vero e proprio: è una specie di amico in affitto, un badante se la parola non avesse una cattiva accezione – ma la parola migliore è davvero la traduzione “allenatore” dato che il rapporto che dovrebbe stabilire con il paziente che si riabilita è proprio quello informale ma gerarchico che esiste tra chi allena e chi è allenato.

Ora le dichiarazioni di Fike hanno sollevato delle giuste obiezioni da parte del pubblico che, di base, ha subito notato che nessuno ha costretto l’attore, tossicodipendente, a partecipare a uno show sulla tossicodipendenza, l’attore ha scelto di proporsi e partecipare, ha scelto anche di rimanere (forse per vincoli contrattuali) quando il sober coach in questione non andava. Come ha scritto con brusca eloquenza una signora su Twitter però: «Se te la prendi col tuo sober coach penserò solo che non intendi restare sobrio sul serio». Ora, come evidenziato già molti anni fa dalla coach Patty Powers, intervistata qui in Italia da Rivista Studio nel 2013, la zona grigia in cui i sober coach si trovano da un punto di vista lavorativo e legale (non servono licenze o lauree particolari, non si hanno responsabilità mediche e via dicendo) ma soprattutto i grossi assegni che intascano per fare il proprio lavoro aveva già portato un decennio fa al dilagare di ciarlatani senza qualifica.

@stopdrinkingcoach Ben Affleck opens up about his sobriety and what it takes to quit drinking and get sober #stopdrinking #quitdrinking #alcoholism #sober #sobercurious #sobercoach original sound - Stop Drinking Coach

Rispetto al passato però in cui il ruolo era ricoperto da figure miste o ibride, nell’ultimo decennio c’è stato un tentativo di regolamentazione: il Connecticut Community for Addiction Recovery (CCAR) ha introdotto nel 2009 il primo corso di formazione Recovery Coach Academy, una curriculum di 30 ore che fornisce agli individui una comprensione delle competenze necessarie ha formato oltre 50.000 persone in tutto il mondo; nel 2006 l’autore William L. White introdusse un modello di riabilitazione comunitaria ancora largamente applicato. Ma la pratica esiste da tempo immemorabile: già nel 1840 circa in America esisteva il “movimento della temperanza”, sorta di antenato un po’ moralista dell’Alcolisti Anonimi; nel 1906 Emanuel Chambers aprì la sua clinica per la sobrietà con dei “friendly visitors” che andavano a casa dei pazienti in riabilitazione, mentre dagli anni ’70, dopo il successo di Alcolisti Anonimi, nacque la figura del “peer supporter”. Ci fu anche un’evoluzione più strettamente medica ma a intorno agli anni ’90 fiorirono molti professionisti privati, per così dire, che seguivano casi su cui era meglio non trapelassero notizie. 

Uno dei problemi dei sober coach infatti è che non hanno bisogno di certificazioni particolari, idealmente devono solo essere passati da una dipendenza – ma non è richiesto. È chiaro infatti che per lavorare a certi livelli servono però delle referenze e delle credenziali di qualche tipo, dato che il business, che non è sotterraneo ma è di sicuro poco attenzionato dalla società, è sicuramente redditizio.  Non sono infatti i tossicodipendenti della strada a chiamare un sobriety coach – avere una figura che segua un paziente di recupero nel suo quotidiano è un lusso. E non a caso Dominic Fike (ma anche Lindsay Lohan, Drew Barrymore e le gemelle Olsen) ne ha avuto una in ragione del suo ruolo di celebrity. Lo scorso ottobre, ad esempio, Fortune aveva condotto un’indagine nel mondo dei sobriety coach rivelando che negli USA, dove sono più diffuse, queste figure fatturano dai 900$ ai 1200$ al giorno ma anche che lavorano principalmente con figure ad alto o altissimo reddito: dirigenti aziendali, attori e cantanti, giovani e ricchissimi scapestrati. Ma non serve farne sempre una questione di classe sociale: di recente un gruppo studentesco della Washington State University è diventato un vero e proprio club della sobrietà con giovani coach che si fanno pagare anche 17 dollari l’ora, mentre è completamente gratuita l’app Sober Grid, sorta di social network per chi cerca supporto durante la propria riabilitazione che permette anche di pagare per essere seguiti personalmente.