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Chi è l’uomo più odiato di Internet?

Una nuova serie Netflix ce lo spiega

Chi è l’uomo più odiato di Internet? Una nuova serie Netflix ce lo spiega

Hunter Moore non è una persona per bene. Anzi, lui stesso si definì «un rovina-vite professionista». Il motivo? Moore fu l’uomo che prese qualcosa che era in sé abbietta come il revenge porn e lo elevò a sistema – per non dire impero. Fu lui, infatti, a creare la piattaforma online Is Anyone Up?, una specie di grande archivio di revenge porn online che aveva tirato fuori tutta la desolante misoginia dei suoi utenti. Moore pubblicava foto e video intimi di donne e uomini corredandoli di nomi completi, geotag, contatti social media e qualunque altra informazione fosse in grado di trovare, riunendo una folla di ex-mariti, ex-fidanzati, amanti non corrisposti, incel misogini "redpillati" e odiatori di ogni risma con l’esplicito obiettivo di imbarazzare, danneggiare e far stare male le proprie vittime. Ma non si trattava solo di revenge porn: Moore si divertiva ad hackerare computer e account di individui per scovare foto con cui umiliarli. Fu proprio così che iniziò la sua rovina, quando rubò dall’account della ventiquattrenne Kayla Laws una foto in topless che la ragazza si era scattata senza per altro inviarla a nessuno. Quando la ragazza scoprì che il sito di Moore aveva postato la foto e le sue informazioni rimase sconvolta – e sua madre, Charlotte, avviò una crociata contro “l’uomo più odiato di Internet” indagando sugli ultimi due anni della sua attività, portando un intero dossier di fronte alle autorità e affrontando un’udienza dopo l’altra mentre, tra le altre cose, gli stessi follower di Moore le inviavano insulti e minacce di morte.

Ma non si creda che Charlotte Laws sia stata l’unica a volerlo buttare giù – Laws è stata l’unica a riuscirci. Prima di lei c’erano stati gli admin di Facebook che lo hanno bannato a vita, poi gli hacker di Anonymous e persino PayPal lo ha bloccato. In passato una donna le cui foto erano state postate era andata fino a casa sua con il padre e lo aveva trafitto alla spalla con una penna, una cicatrice che Moore porta ancora. In realtà poco era stato fatto per fermarlo: dopo che due diversi talk show lo avevano invitato per farlo confrontare con le sue vittime, senza che Moore mostrasse segnali di pentimento, la fama del sito era cresciuta (si narra di 350.000 visite singole al giorno) e i cancelli del più profondo inferno di Internet si erano aperti facendo dilagare sulla piattaforma video pedo-pornografici, foto di disabili nudi, foto di cadaveri e perfino di animali torturati. Una legge lo difendeva: il Communications Decency Act del 1996, che sostanzialmente rende il proprietario di un sito non responsabile del contenuto postato dagli utenti. Una specie di giubbotto antiproiettile che portava Moore a rispondere con un letterale «LOL» alle numerose lettere di diffida. A un certo punto, nel 2012, fu l’FBI, dietro denuncia di Charlotte Laws, a bussare alla sua porta con un mandato di perquisizione per i suoi computer: era stato accusato di hacking e il suo giubbotto antiproiettile non poteva salvarlo. Il sito venne chiuso e il dominio venduto a un sito antibullismo ancora esistente ma ormai inattivo dopo i suoi problemi di hacker. 

Il resto della storia la racconterà la serie Netflix. Quello che però ne emerge è forse l’istantanea di una società: da un lato c’è il totale sadismo degli utenti del sito, che diedero così tante views ai contenuti pornografici non autorizzati postati da Moore da convincerlo a postare soltanto quelli e non foto ricevute tramite delle submission volontarie come era al principio; dall’altro c’è la completa oppressione delle vittime che, anche di fronte all’invasione della privacy, anche davanti a reputazioni rovinate e posti di lavoro persi (capitò per esempio a un’insegnante), vennero bullizzate e non si fecero avanti per accusare il loro carnefice che, anzi, proprio sull’immagine di bad boy costruì la propria temporanea fama. Cosa ancora più inquietante è che molti utenti Twitter parlano di Moore con nostalgia, e lo stesso Moore sta usando il proprio account Twitter da poco riaperto per promuovere se stesso e il suo libro con i primi follower, che si denominano #thefamily, che iniziano a radunarsi di nuovo intorno a lui. Il ritorno del documentario, in effetti, fa sorgere il dubbio che tutto questo rivangare nel passato non finisca solo per dare a Moore altra visibilità dimostrando che forse, a volte, il crimine paga. Speriamo non sia questo il caso.