
Adesso anche i brand accessibili vogliono alzare i prezzi
Ma quanto costa l’elevazione?
10 Aprile 2025
Fino a l’anno scorso il concetto di direttore creativo era uno dei pilastri portanti del moderno mito della moda. Un titolo che nel corso dello scorso decennio ha completamente soppiantato il vetusto “stilista” per indicare precisamente una figura che gestisce la creatività di un certo brand senza però disegnare i singoli capi o accessori in prima persona. Una definizione che dunque è precisa ma i cui contorni sono abbastanza vaghi e sfumati da farla diventare uno stupendo strumento di branding e di elevazione sul mercato. Perché, trattandosi di una figura che lavora sul piano relativamente più astratto dell’immagine del brand, il direttore creativo ha smesso di essere appannaggio esclusivo della moda di lusso. Primo esempio che viene in mente: A$AP Rocky che diventa il direttore creativo di Ray-Ban. Ma negli ultimi tempi ne abbiamo visti davvero molti: la nomina più fresca di tutte è quella di Adam Selman, ex-designer di Savage X Fenty assoldato da Victoria’s Secret come nuovo direttore creativo; c’è stato poi Jonathan Saunders entrato in & Other Stories come direttore creativo (il titolo esatto è “chief creative officer” ma quello è il senso) dopo aver ricoperto un ruolo identico in Diane Von Frustenberg e presso il proprio stesso brand. Nomine più datate ma comunque recenti sono quelle della veterana Clare Waight Keller per Uniqlo C e Zac Posen da The Gap. Tutte espressioni di una spinta che i brand della grande distribuzione, che si trovino nel segmento high street o in quello del fast fashion e che noi definiamo generalmente “middle market”, stanno operando da qualche mese a questa parte e che, in un recente articolo, Vogue ha definito “premiumisation”. Ma in cosa consiste veramente questa elevazione?
L’articolo di Vogue che abbiamo appena citato parte da un pensiero giusto e provocatorio insieme: nei siti di brand come COS, Mango o Massimo Dutti hanno iniziato a fare capolino giacche di pelle da 500 euro e cappotti che arrivano a superare i prezzi a quattro cifre. Simile cosa si vede anche da Stussy o Supreme dove i prodotti top-of-the-line superano i 400 o i 700 euro a seconda dei casi. In generale, al di là dei prezzi in sé, tutti questi brand più mainstream hanno fatto grandi sforzi verso l’elevazione della propria immagine e della propria credibilità, che si tratti di Zara con le sue collaborazioni con designer e la label SRPLS o di H&M con linee come “The Studio” o la sua Premium Selection. Gap Studio, altra linea premium, è riuscita persino a vestire Thimothée Chalamet per la cena degli Oscar. E vivendo nel mondo tardo-capitalista in cui ci troviamo non è difficile capire perché si cerchi questa elevazione: alzare i prezzi. Parlando sempre a Vogue, Krista Corrigan, analista per la società di retail intelligence EDITED, serve di base a giustificare aumenti di prezzo con la linea “The Studio” di H&M ad esempio che tra SS24 e FW24 ha fatto crescere la propria offerta del 98%, con un incremento medio dei prezzi del 66% rispetto all’anno prima. Da Zara, i capi che vengono dalle cosiddette “designer capsule” hanno un costo medio superiore del 59% rispetto agli articoli standard.
@annaaronova I've got to mention that H&M Premium is quite decent, you know? Their premium clothes, which are reasonably priced, have a mix of materials. It's like they're trying to copy the pricier stuff but doing a good job at it. The designs are classic and timeless, so basically it's for everyone. The only thing that bugs me a bit is that some of these clothes can be a bit itchy. In general a blend of synthetic fabrics and wool can make your skin feel irritated. You might need to wear something underneath to avoid it. Also, in this video, I'm talking about Polyamide being a great fabric. But here's the deal – I think it's because H&M doesn't use the absolute top-notch wool or mohair. So Polyamide steps in and makes the clothes durable. It also helps the jumper maintain its shape and structure. Have you ever shopped anything from H&M Premium? How long does it last for you? What's your experience like? Let’s discuss it :) #h&m #QualityCraftsmanship #FashionTransparency #shoppingreview #QualityCheck Bossa Nova Easy Listening(1302379) - yousuke
La scommessa, però, funziona: nonostante la lentezza dei primi mesi dell’anno, Inditex ha riportato crescite positive; dieci giorni fa un comunicato di Mango diceva che l’azienda «ha consolidato un percorso di crescita esponenziale negli ultimi cinque anni. Dal 2019, l'azienda ha aumentato i propri ricavi del 40%, al di sopra della media del settore», con un turnover di oltre 3 miliardi di euro nel 2024 mentre Gap, pur vedendo una leggera flessione nelle vendite, ha previsto una modesta crescita per le sue revenue già miliardarie. E persino il gruppo H&M ha riportato una crescita delle vendite, assai modesta a dire il vero, per il primo trimestre dell’anno anche se di fronte a un calo del 53% nei profitti. Proprio tramite diversi brand del gruppo H&M, però, si intuiscono le possibilità di questa elevazione: COS è l’esempio più ovvio, con alcuni dei suoi dupe di The Row o Dries Van Noten diventati prodotti virali e finiti pure nella classifica di Lyst insieme a Skims, UGG e di &daughters; ma anche Arket che dal suo arrivo a Milano, ad esempio, ha aperto un proprio caffè dentro il suo negozio – format inedito per ora per un brand “da grande magazzino”. Il problema però rimane quello dell’identità dato che questi brand non sono né abbastanza accessibili per il consumatore sensibile al prezzo, né abbastanza esclusivi per quello del lusso.
Zacaffé la primera cafetería de ZARA en España, dentro de una tienda de ropa de hombre en Madrid que tiene un café de especialidad delicioso y una bollería de uno de los mejores obradores de la capital #zacaffé #zara #cafedeespecialidad #madridhttps://t.co/Pjs4liEfcv pic.twitter.com/ln2reVQRQc
— Gastroactivity (@Gastroactivity) April 1, 2025
Per risolvere questa crisi di identità, posto che il prodotto può anche essere più premium ma non sarà mai autenticamente lussuoso, diversi esperti citati da Vogue indicano una possibile strada nel miglioramento dell’esperienza in negozio – dal servizio sartoriale che offrono i negozi Uniqlo fino al già citato caffè di Arket e al “Zacaffè” sperimentato da Inditex a Madrid già lo scorso dicembre e poi atterrato in Giappone e Corea. In generale, il miglioramento dell’esperienza negli store è considerato un principio-base su cui tutti i brand citati stanno lavorando. Ora, è chiaro che i negozi di questo genere sono diversi dalla classica boutique: tantissimi piani, spesso affollati, pieni di prodotto al limite della confusione. La loro stessa stazza impedisce che ciascuno diventi legato all’estetica di un luogo o possa connettersi a una community locale. È forse per questo che i servizi più gettonati siano il caffè e i servizi di riparazione.
Ma secondo Tamara Cincik, fondatrice e CEO di Fashion Roundtable, sempre intervistata nel medesimo articolo, il ripensamento degli spazi deve rispondere ai bisogni della comunità ma soprattutto deve mirare (un po’ come sta avvenendo in certe librerie) a far diventare l’anonimo e replicabile mega-negozio mainstream in un luogo unico, con un’identità chiara, un’offerta differenziata e un’anima profondamente locale. Insomma, secondo l'esperta questi nomi del fast fashion o adiacenti a esso dovrebbero imitare il playbook che in questi mesi ha definito l'operato di quelli che qualche mese fa avevamo definito"gli amichevoli brand di quartiere" ovvero quei marchi orientati ai giovani e al moderno streetwear accessibile che hanno fatto dei propri negozi luoghi di esperienze "analogiche". La sfida sarà dunque rimanere “di massa” senza sembrarlo. Il rischio di non provarci, però, è alto: si può infatti gravitare verso gli strati più alti del mercato oppure finire accorpati a brand di fast fashion come Temu e Shein - e nemmeno loro oggi se la passano così bene.