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Anche la moda inizierà a corteggiare Trump?

Le grandi corporation americane hanno già iniziato a farlo

Anche la moda inizierà a corteggiare Trump? Le grandi corporation americane hanno già iniziato a farlo

Secondo un report di Barclays pubblicato ieri da WWD, gli Stati Uniti saranno il principale motore di crescita del mercato del lusso nel 2025, dato che la spesa dei consumatori cinesi potrebbe continuare a calare. Il report dichiara che gli statunitensi rappresentano infatti circa il 25% dei ricavi del mercato globale del lusso e si prevede che nel corso dell’anno la loro spesa in questa categoria crescerà del 6%. Una crescita che dovrebbe sprigionarsi da un miglioramento della fiducia dei consumatori ma soprattutto di molti grandi investitori sorto dopo le proposte di tagli fiscali e di deregolamentazione da parte di Donald Trump che dovrebbero stimolare l’attività economica, incoraggiando una maggiore spesa discrezionale tra i consumatori americani e rendere i ricchi (storicamente il segmento più succoso per le vendite di qualunque brand di lusso) ancora più ricchi. Analizzando i report finanziari di LVMH, ad esempio, il segmento dei consumatori americani del gruppo ha sì affrontato qualche difficoltà negli ultimi trimestri, ma ha dato segnali di un miglioramento costante nella sua divisione Fashion & Leather Goods, inducendo molti a pensare che una possibile ripresa possa verificarsi tra qualche mese. E anche se negli USA come in tutto il mondo i clienti aspirazionali rimangono latitanti, probabilmente per via dei prezzi, il mercato americano promette bene e tanti brand di moda gli stanno dedicando attenzione: Prada ha comprato un intero edificio a New York Armani ha inaugurato un nuovo mega-flagship lo scorso autunno ma gli esempi abbondano. Ad ogni modo, senza la Cina ad alimentare le vendite spropositate di un tempo, il mondo del lusso si troverà a dipendere dall’America sempre di più. C’è un unico problema: negli Stati Uniti tante cose stanno per cambiare e i brand dovranno far convivere le proprie narrazioni progressiste e liberal con un clima politico che diventa più conservatore ogni giorno.

@fashioncricket Giorgio Armani inaugura a New York in Madison Avenue il building che ospita le sue boutique, un ristorante e le lussuose dimore Giorgio Armani Residences. #GiorgioArmani #Armani #NY #NewYork #moda #fashion suono originale - Fashion cricket

Il cambiamento che c’è nell’aria è visibile da tutto il mondo. Alla vigilia dell’insediamento di Trump, l’intera Silicon Valley, insieme agli oligarchi dei social, si è genuflessa al nuovo governo: senza nemmeno parlare di Elon Musk e X, che hanno praticamente reso l’elezione possibile con il proprio martellamento social, negli ultimi giorni abbiamo visto Meta/Facebook eliminare i suoi fact-checkers e interrompere i programmi di diversità e inclusione dette DEI; Amazon trasmetterà live l’insediamento di Trump per cui ha donato 1 milione di dollari, produrrà un documentario su Melania Trump, prodotto dalla stessa First Lady, i cui diritti di esclusiva sono costati 40 milioni di dollari. I CEO di Apple e Google e Zuckerberg hanno promesso ciascuno 1 milione di dollari al fondo inaugurale di Trump. E oltre a interrompere le DEI, Meta ha anche nominato Dana White, fedelissima di Trump e capo dell’Ultimate Fighting Championship, nel suo consiglio di amministrazione. Anche istituzioni finanziarie e banche di Wall Street stanno riducendo i loro impegni verso gli obiettivi ambientali e di diversità: BlackRock, ad esempio, si è ritirata dall’iniziativa Net Zero Asset Managers; parlando con il Financial Times, invece, David Solomon, CEO di Goldman Sachs, ha lodato il “playbook orientato alla crescita” di Trump circa un mese dopo essersi ritirato dalla Net-Zero Banking Alliance; Walmart e McDonald’s hanno cancellato i DEI, ritirato i finanziamenti al Center for Racial Equity, creato con un impegno di 100 milioni di dollari dopo l’omicidio di George Floyd e abbandonato gli obiettivi percentuali per dirigenti donne e persone BIPOC.

Sulla carta questi cambi di rotta non sono piaggeria ma un “riallineamento con le preferenze dei clienti e della società” ma è chiaro che nei prossimi quattro anni, per le aziende, trovarsi alla destra di Trump sarà molto meglio che trovarsi sulla sua strada. Tra l'altro il violento contraccolpo conservatore dell'infosfera social all'ondata progressista degli ultimi anni era iniziato da tempo: Bud Light se l’è vista molto brutta nell’aprile del 2023 dopo una campagna che includeva la donna trans, Dylan Mulvaney, che ha causato un boicottaggio tradottosi in un crollo del 20% nel valore delle azioni della società madre e facendo perdere al brand lo status di top seller in America che deteneva da 20 anni. Dopo quell'episodio e soprattutto dopo il totale caos scatenato su Balenciaga proprio dai conservatori americani (ma se ne sono verificati molti altri nel lato "redpillato" di Internet in tutto il mondo) molte aziende, incluse quelle di moda, hanno moderato fortemente i propri toni, provando ad assumere uno storytelling più neutrale presumibilmente per timore di trovarsi tra le mani un boicottaggio internazionale: il primo segnale è stata la sparizione delle modelle plus-size dalle sfilate, ampiamente documentata; un altro esempio potrebbe essere quello delle campagne di Calvin Klein, dove ogni tipologia fisica alternativa e desiderio di rappresentazione di minoranze LGBT si è infranta contro il corpo scolpito di Jeremy Allen White, meno politicamente orientato; infine anche Victoria's Secret è tornato (anche se non in ottima forma) alle sue classiche modelle lo scorso ottobre mentre un po' ovunque, con la dispersione della generazione streetwear di designer cresciuta sotto l'ala di Virgil Abloh e Kanye, ogni discorso su intersezionalità, rappresentazione e multiculturalismo è stato quietamente accantonato.

Insomma, sembrava idealismo e invece era marketing. Già nel 2023, Vogue Business notava ad esempio che le iniziative DEI dei brand nate dopo la primavera progressista del 2020, quella di Black Lives Matter e #MeToo, avevano iniziato a perdere slancio. Consultato dal magazine, Daniel Peters, fondatore della consulenza londinese Fashion Minority Report, aveva parlato di una crescente stanchezza riguardo all’argomento, alla polarizzazione su cosa debbano essere le pratiche inclusive e alla mancanza di comprensione chiara sul valore commerciale di tali iniziative. Al di là di tutti i possibili punti di vista sulla loro utilità, pur essendoci studi che mostrano come le aziende inclusive performino meglio sul mercato, le DEI sono di solito le prime a cadere quando si operano dei tagli alle spese. E anche se risulta difficile, per motivi di ottica, che i brand di moda europei o americani arretrino sul versante di inclusione e rappresentazione, o su quello della sostenibilità durante l'amministrazione Trump, rimane da capire quale sarà il futuro degli ideali progressisti nella moda aziendalizzata. Nello specifico, i brand si ritroveranno a essere esaminati contemporaneamente dal lato più conservatore del paese e dal suo governo e, dall’altro, dall’audience di più aperte vedute sui social media - e la crisi del lusso attuale e l’accresciuta dipendenza dal mercato USA, con il timore di nuovi dazi e tariffe, potrebbero rendere i brand estremamente prudenti nell’evitare boicottaggi o ritorsioni ma anche indurre qualche designer o azienda ad avvicinarsi alla nuova amministrazione. Gli Arnault ad esempio vanno daccordissimo con Trump, che li ha aiutati nell'aprire una fabbrica di Louis Vuitton in Texas, tanto che uno dei figli di Bernard, Alexandre, è stato avvistato a comizi e celebrazioni durante le recenti elezioni e la famiglia ha ampiamente finanziato i Repubblicani insieme a diversi gruppi del lusso, Kering a parte, come mostrato dal Financial Times. La vera domanda, però, è quali brand proveranno a ingraziarsi Trump e Musk e come senza compromettere la propria reputazione di “campioni del cambiamento”: Anna Wintour andrà ancora alle cene di stato alla Casa Bianca? E cosa potrebbe accadere a un designer che si reca a visitare Mar-a-Lago?

Si potrebbe supporre uno scenario in cui i brand e designer mantengono il proprio schieramento ideologico mentre i gruppi a cui appartengono fanno affari nel retroscena - dopo tutto è sempre stato così. Ma il problema dell’associazione a Trump si pone, banalmente, anche sul piano dello styling. Se infatti brand e personalità della moda si sono associati a Obama e Biden senza problemi, le cose con Trump sono andate diversamente durante il primo mandato. Come ricorda WWD, nel 2017, designer come Marc Jacobs, Tom Ford e Phillip Lim, dichiararono apertamente di non avere alcuna intenzione di vestire Melania Trump, qualora se ne presentasse l’occasione. Tanto che Hervé Pierre, stylist della First Lady, non richiedeva look ai brand ma li andava a comprare direttamente in negozio. Come Pierre ha detto a WWD, però, ci sono stati casi in cui i brand americani si sono rifiutati di fargli acquistare i propri prodotti negli stessi negozi – cosa non avvenuta invece con i brand europei. Le affiliazioni politiche (ma non economiche) dell’industria della moda USA al Partito Democratico complicano ulteriormente la questione dato che la prospettiva di vestire i Trump (che ora tra figlie, nipoti e nuore sono un vero e proprio clan) un tema polarizzante e potenzialmente impattante sulle vendite. In maniera molto neutrale, però, Ralph Lauren ha vestito sia Melania Trump che Jill Biden dimostrando che una via di mezzo comunque può esistere. Altri designer invece hanno preso posizioni più esplicite: Prabal Gurung, Tory Burch, Diane von Furstenberg e Gabriela Hearst hanno collaborato con Kamala Harris per il merch della sua campagna – un cambio di rotta potrebbe risultare forse poco coerente. Ad ogni modo nei prossimi quattro anni l’intera industria dovrà destreggiarsi tra mantenimento dei brand values e la crescente polarizzazione della società americana. Sarà estremamente interessante vedere come ciascuno di essi deciderà di comportarsi: saliranno sul carro del vincitore o proveranno a mettergli il bastone tra le ruote?