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Il debutto in passerella di Peter Do e il ritorno della moda post-ironica

Un punto di svolta per la moda dei prossimi anni

Il debutto in passerella di Peter Do e il ritorno della moda post-ironica Un punto di svolta per la moda dei prossimi anni
Peter Do FW21 Campaign
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Ieri a Greenpoint, a Brooklyn, in un’area aperta accanto all’East River, si è tenuto quello che forse era lo show più atteso della New York Fashion Week: il debutto in passerella di Peter Do. Non si è trattato ovviamente di un debutto assoluto – il brand ha visto la luce nel 2018, con una presentazione a Parigi che gli ha subito procurato contratti con nove grandi buyer fra cui Net-a-Porter e Dover Street Market. Fast-foward al 2020: Peter Do è fra i finalisti del LVMH Prize (ha già vinto il LVMH Graduate Award nel 2014), Anya Taylor-Joy indossa uno dei suoi abiti per il finale del Saturday Night Live ed entrambi i lookbook delle collezioni FW20 e SS21 vengono accolti con un entusiasmo unanime di stampa, di buyer e di pubblico.

Ieri c’è stato il nuovo culmine: una collezione in cui il linguaggio di Peter Do si rielabora e si raffina ulteriormente, che sembra minimalista ma non può essere definita minimalista se si osserva la complessità di certi layering, la calcolata e discreta stravaganza di assimetrie ed elementi oversize, ma anche la maturità di una serie di look senza età. In tutto ciò, si possono osservare anche reference e citazioni sottili a un universo estetico eclettico ma coerente e soprattutto vagamente nostalgico: prima di tutto a Phoebe Philo, per cui Do ha lavorato durante gli anni gloriosi di Céline; poi gli show anni ’90 del Gucci di Tom Ford nell’uso di silhouette fluenti e suggestive; poi ancora a Margiela e Prada. Ma soprattutto Peter Do è se stesso – come lo è stato fin dagli inizi.

Iniziare col piede giusto

Peter Do FW21 Campaign
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Alla sfilata di ieri alcuni dei look migliori si basavano sulla cultura di origine di Do, che è vietnamita, e che ha portato, fra i classici femminili della sua collezione, l’áo dài, l’abito tradizionale del Vietnam che consiste in un abito di seta stretto in vita che viene indossato sopra i pantaloni – la versione di Do si trova alla confluenza di esperienze e ricordi personali e di trend come quello della gender neutrality (l’ào dài è infatti un abito che, con minime variazioni, viene indossato anche dagli uomini) e anche del ritorno della moda Y2K, quando abiti e jeans venivano spesso accoppiati con orribili risultati su molti red carpet. Al proprio passato Do ha fatto riferimento per spiegare la sua collezione e la sua filosofia di design – paragonando la collezione al pho, tradizionale brodo vietnamita la cui preparazione richiede svariate ore. Do e il padre, immigrati a Philadelphia, lo cucinavano insieme: «Per essere buono, il Pho deve essere ridotto a un’essenza. È un piatto confortante e casalingo… e questa è la nostra casa». Invece che comporre pomposi pamphlet programmatici, il team di Do ha distribuito le show notes a mano al pubblico – un altro tocco personale che delinea ancora meglio il modus operandi del brand che ha trovato successo proprio nel bypassare le convenzioni ormai indigeste del marketing. La campagna FW21, per esempio, usa il team stesso del brand (Peter Do incluso) come modelli e lo fa sul tetto di un edificio newyorchese - è raffinata, autoprodotta, semplice ma, soprattutto, è veritiera e onesta.

Intervistato da WWD nel 2018, poco dopo il suo esordio, avvenuto senza stampa, senza presentazioni, senza nulla di remotamente vicino al PR, Do disse: «L’intero brand è stato tirato su grazie al passaparola e a Instagram. Sono abbastanza attivo lì e posto molte foto del lavoro e del dietro le quinte. Molti abuyer mi hanno detto che gli sembrava di conoscere già il brand da tempo perché mi hanno visto costruire gli scaffali, il tavolo, hanno visto il team andare all'Ikea. Questa è l'unica attività di PR che abbiamo fatto». A quei tempi  Peter Do aveva solo 45.000 followers su Instagram, oggi sono diventati 405.000. Il che ci riporta al perché Peter Do ha ottenuto il successo che ha avuto e ne otterrà ancora di più nei prossimi anni: la moda ha un  disperato bisogno di onestà. Quando c'è un autore la cui personalità e la cui estetica possono essere esplorate con trasparenza e onestà, che racconta se stesso senza inutili auto-mitologie, scatta l'interesse. Quando il prodotto è di qualità, quando l’ispirazione è pura e onesta e soprattutto quando il brand si concentra su ciò che conta e non sul marketing, la pubblicità non serve. I clienti stessi di Peter Do parlano del brand e, nel giro di pochi anni, anche prima di arrivare sull’effettiva passerella, le sue collezioni causano già sensazione.

Una moda post-ironica

Prima di intervistare Peter Do lo scorso gennaio, Kat Herriman di Cultured ha fatto un’importante riflessione che spiega il suo rapido successo e, trasversalmente, anche il successo degli ex-pupilli di Phoebe Philo da Céline, fra cui figura anche Daniel Lee di Bottega Veneta. Secondo Herriman ci troviamo in un punto di svolta in cui il trend della moda ironica che nel 2015 era esploso con Demna Gvasalia e Alessandro Michele, che rispettivamente citavano e parodiavano i codici estetici della working class e dell’alta borghesia, stia per concludersi - il mercato è così saturo di brand che vogliono apparire speciali che nessuno si è più concentrato sull'essere speciale. Oggi il trend è inverso: il successo di brand come Bottega Veneta, The Row e Peter Do stesso, ma anche il ritorno in auge dell’archivio di Armani e di brand come Loro Piana e Brunello Cucinelli, evidenzia l’avvio di una moda post-ironica, che non vuole essere più paradossale e citazionista ma concentrarsi sul prodotto finale, sulla natura stessa della moda che, in termini più basici possibili, consiste nel creare e nel vendere abiti. Nel 2018, profeticamente, Peter Do spiegava a WWD:

«Penso che sia tempo di tornare alla sartoria, al produrre a New York, a sostenere l'artigianato e la gente del posto, l'autenticità, fare vestiti. Mi sento come se nessuno creasse più vestiti, tutti vogliono solo creare hype».