
Perché così tanti designer di culto stanno tornando sulle scene? Oliver Theyskens, Takahiro Miyashita e Peter Do hanno annunciato nuovi progetti
In un settembre denso di debutti nella moda istituzionale, sta avvenendo anche una sorta di rimonta per i designer indipendenti e di nicchia, che riaffermano la loro voce creativa in un panorama dove i grandi e storici brand, e più in generale il sistema della moda commerciale in senso lato, sono in grave sofferenza. In questi giorni, infatti, una serie di designer di culto sono tornati sotto i riflettori dopo “congedi” più o meno ufficiosi dalle scene e stanno lanciando nuovi progetti. I nomi non sono affatto da poco, anzi: il primo è Olivier Theyskens, che ha fondato ad Anversa il nuovo brand Boloria in collaborazione con il gruppo belga d’intrattenimento WEAREONE.world, gli stessi di Tomorrowland.
C’è poi Takahiro Miyashita, tornato dopo 15 lunghissimi anni al timone del cult brand Number (N)ine dopo aver lasciato The Soloist, altro brand da lui fondato e diretto; e infine Peter Do, il designer newyorkese di origini vietnamite che ha lasciato la direzione creativa di Helmut Lang e ha annunciato la creazione di una seconda linea, PD-168, che sarà più lussuosa della classica diffusion line ma avrà prezzi più accessibili e un modello di business più sostenibile, autofinanziato, venduto solo online e con riedizioni stagionali stabili. Ma cosa c’è esattamente dietro questa raffica di grandi ritorni?
Perchè questi ritorni e riaperture?
Dei tre designer di cui stiamo parlando, Peter Do è quello che ha fornito ragioni pratiche per l’avvio di un nuovo progetto. Al di là di ovvi vantaggi commerciali derivanti dall’avere una linea di diffusione più accessibile, per Peter Do la nascita di PD-168 è un passo verso l'indipendenza dal wholesale nel mezzo della crisi per i retailer multi-brand. La sua nuova label è stata testata attraverso i pop-up di Peter Do, durante i quali la clientela del designer ha molto apprezzato la nuova e più economica linea (la linea principale di Do ha un range di prezzi ampio, ma la sartoria e i blazer possono costare caro) che, come riporta BoF, ha finito per generare il 50% delle vendite totali. Importantissimo notare che una delle condizioni indiscutibili del suo nuovo business model è quello della vendita diretta online per controllare prezzi, scontistica e distribuzione della merce.
Più difficile capire il motivo degli altri due ritorni. Per Miyashita, con il ritorno da Number (N)ine si può supporre che, al netto delle ragioni sentimentali, ci siano stati degli accordi commerciali di qualche tipo. The Soloist, il brand che il designer ha lasciato pur restandone proprietario, vendeva bene: cinque anni fa, riporta BoF, registrava circa 22 milioni di dollari di fatturato annuo e non mostrava segni di crisi, ma dopo la pandemia le sfilate si erano spostate a Tokyo per motivazioni che quasi di certo erano di costi, salvo poi tornare a Parigi per un’ultima presentazione a gennaio. Number (N)ine, che aveva perso smalto sotto nuovi proprietari ma che rimane forte di una buona rete distributiva, è un altro discorso: il brand non appartiene più al founder dal 2010, nel frattempo è diventato stagnante e forse i proprietari potrebbero aver visto nel suo ritorno un modo di risollevare le vendite. Inoltre, il rilancio come "Number (N)ine by Takahiro Miyashita" suggerisce da un lato una sorta di accordo in licenza che dia al designer pieno controllo creativo (il designer era andato via proprio per una questione di controllo creativo) e dall’altro una potenziale partnership o un buyback parziale per capitalizzare sul nome.
Poco o nulla si sa invece di Theyskens. Il designer belga rimane formalmente ancora il direttore creativo di Azzaro, un brand che non sembra avere nuovi collezioni né essere attivo su Instagram, ma che continua il proprio business di profumi. Possiamo presumere che L’Oreal, che possiede il brand, abbia “parcheggiato” il lato moda del brand e di conseguenza mantenuto il ruolo di direttore creativo per Theyskens, ma con attività limitate. Di recente il designer ha creato a proprio nome dei pezzi custom avviando un business finito anche sul The New York Times, il più notevole per il video Abracadabra di Lady Gaga e sicuramente è rimasto attivo sul fronte dei custom. La partnership con WEAREONE.world, il gruppo dietro festival come Tomorrowland che si espande per la prima volta nella moda (ci sono state collezioni merch e collaborazioni come quella con Sarda nel 2025), aggiunge un elemento di sperimentazione per i proprietari, che forse sondano il mercato luxury attraverso un sodalizio a lungo termine con un talento locale, senza implicare urgenze finanziarie per Theyskens.
Business più agili e sostenbili?
@kaileemckenzie_ the fashion industry needs a total overhaul #ssense #luisaviaroma #bankruptcy #fashionindustry #cuttingroomfloor #businessoffashion original sound - Kailee McKenzie
Quando i dinosauri si estinsero, il mondo divenne il regno di animali più piccoli e adattabili. Che stia succedendo lo stesso nella moda? I grandi conglomerati globali della moda, pur mantenendo il loro potere, stanno perdendo slancio e vitalità con collezioni sempre più ampie, generiche e prive di vera personalità, diluite in un ciclo di produzione rapida che privilegia il volume sul valore. I ritorni indipendenti di Peter Do, Takahiro Miyashita e Olivier Theyskens con progetti più indipendenti o defilati potrebbero essere letti come una scelta strategica ricca di potenzialità, fondata su un maggiore controllo creativo e operativo, un'agilità che permette di navigare l'instabilità del settore con flessibilità e quasi un ritorno allo slow fashion, dove ogni pezzo è investito di significato autentico piuttosto che di effimera viralità.
Non è un caso se tutti e tre sono legati profondamente alle proprie radici locali: New York per Do, Tokyo per Miyashita, Anversa per Theyskens – tutti e tre, in modo cruciale, sono noti per il loro seguito di nicchia e la loro anti-commercialità quasi radicale. I nuovi modelli di questi designer sono, per concezione e roll-out, dei modelli intimi e quasi “domestici”, ci si passi il termine, che rispondono probabilmente a un'esigenza nascente del pubblico: brand sensati, meno generici e più ancorati a una narrazione personale, capace di restituire profondità emotiva e culturale in opposizione a una moda mainstream che, per la sua scala eccessiva, finisce per perdere autenticità e impatto, oltre che value proposition. Questo spostamento verso l'indipendenza, dunque, potrebbe essere un'opportunità per ridefinire un lusso che è in crisi di identità prima che finanziaria, ponendo l'interrogativo se non sia l’inzio della fine per un modello di business ipertrofico, pronto a cedere il passo a ecosistemi più sostenibili e umani.














































