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Come le "backrooms" sono diventate una leggenda urbana dell'età digitale

Il fascino senza fine dei luoghi che ci inquietano

Come le backrooms sono diventate una leggenda urbana dell'età digitale Il fascino senza fine dei luoghi che ci inquietano
Nightmare (Wes Craven, 1984)
Twin Peaks (David Lynch, 1990)
The Shining (Stanley Kubrick, 1980)
Silent Hill (Christophe Gans, 2006)
Session 9 (Brad Anderson, 2001)
Pulse (Kiyoshi Kurosawa, 2001)
It Follows (David Robert Mitchell, 2014)
Cube (Vincenzo Natali, 1997)

Inquietudine, angoscia, la sensazione di vivere in un eterno déjà-vu. Queste sono le emozioni descritte da chi dice di essersi ritrovato, almeno una volta nella vita, in una “backroom”: un luogo, anzi infiniti luoghi liminali, caratterizzati da un’estetica tanto inquietante quanto paradossalmente familiare. Un magazzino in disuso, una piscina vuota, un ufficio monocromatico dalle luci intermittenti. L’immaginario delle backrooms si nutre di non-luoghi che evocano un forte senso di incertezza in chi li osserva ed è uno degli ultimi prodotti agghiaccianti dell’internet folklore, che ha preso vigore grazie alle numerose speculazioni delle community del web (basti pensare alla fama delle leggende che orbitano attorno al Cecil Hotel o al terrificante personaggio di Slender Man). La teoria dell’esistenza di queste stanze nasce su 4chan, un sito imageboard dove gli utenti pubblicano contenuti di ogni tipo in forma anonima, in seguito ad un post raffigurante una stanza monocromatica, con la moquette e le luci bianche, accompagnato da questa caption:

«Se non fai attenzione e ti allontani dalla realtà nelle aree sbagliate, finirai nelle backrooms, dove non c’è altro se non la puzza di un vecchio tappeto umido, la follia di un giallo monotono, l’infinito rumore di fondo di luci fluorescenti al massimo ronzio, e circa seicento milioni di miglia quadrate di stanze vuote suddivise a caso per intrappolarti. Dio ti salvi se senti qualcosa che vaga nelle vicinanze, perché sicuramente ti ha sentito».

Praticamente un “creepypasta”, un racconto di fantasia mirato a terrorizzare chiunque lo legga, che in tempo lampo ha diffuso un’infinità di immagini di stanze vuote e tetre su piattaforme come Reddit e YouTube, sotto il tag #liminalplaces. Ma cosa ci attrae a tal punto da far diventare pop un fenomeno nato in maniera del tutto anonima sul web? 

@lights.are.off The backrooms #backrooms #thebackrooms #horrortok #vhs original sound - LIGHTS ARE OFF

La nostra esistenza è costellata di eventi indecifrabili, che per natura siamo indotti a spiegare. Quando non troviamo la chiave ed il giusto significato da dare a ciò che accade intorno a noi, ci troviamo immersi in un groviglio di confusione ed incertezza. L’immaginario delle backrooms incarna alla perfezione questo stato d’animo e gli dà forma attraverso una seducente estetica creepy, che richiama il mondo post-vaporwave e l’astrattismo. I motivi per cui queste location ci sono stranamente familiari risiede negli input visivi che ci bombardano da anni attraverso i media, da film cult come Shining, girato in un albergo fatiscente e labirintico, a videogame del calibro di Silent Hill, Grand Theft Auto e Rayman. Abbiamo collezionato e riposto nel cassetto della memoria (e della paura) una sequela di luoghi remoti che la nostra mente va a ripescare quando siamo meno vigili, trasformandoli nel background dei nostri incubi peggiori. I quartieri bui e nebbiosi di Stranger Things (o ancora prima, Twin Peaks), il mondo dei sogni di Freddy in Nightmare, la surreale prigione infinita di Cube e i corridoi e le piscine dove vagano i demoni di It Follows, le loading zones tra un livello e l’altro di un gioco, le presenze minacciose che ci osservano nel buio come il pagliaccio Pennywise. L’immaginario horror dello nostra epoca rielabora gli scenari più criptici del cinema horror e del gaming, trasformandoli nelle metafore di un timore più attuale ed impalpabile. 

Twin Peaks (David Lynch, 1990)
The Shining (Stanley Kubrick, 1980)
Nightmare (Wes Craven, 1984)
Silent Hill (Christophe Gans, 2006)
Session 9 (Brad Anderson, 2001)
Pulse (Kiyoshi Kurosawa, 2001)
It Follows (David Robert Mitchell, 2014)
Cube (Vincenzo Natali, 1997)

Le backrooms sono delle aree di attesa dal forte significato simbolico che rappresentano alla perfezione le paure principali del nostro secolo: l’ansia sociale e l’horror vacui. Non è un caso che molti artisti scelgano queste zone di transizione come soggetto delle proprie rappresentazioni, per esprimere nel migliore dei modi questi concetti astratti: dalle tele di Ferdinanda Florence, pittrice originaria di Washington D.C, fino al celebre illustratore 3D Jared Pike e la cryptoartist Hanieh Masoumi, i liminal places ridefiniscono l’inquietudine sociale del ventunesimo secolo con paesaggi surreali, esclusi dallo spazio e dal tempo, dall’aspetto minaccioso ma altrettanto ammaliante. Sul web vi sono poi infinite teorie che orbitano attorno all’esistenza delle backrooms nel mondo reale. Si tratterebbe perlopiù di allucinazioni in cui finisce intrappolati durante fenomeni come la paralisi del sonno, o di condizioni degenerative per il nostro cervello, come l’Alzheimer. The Caretaker, musicista britannico sperimentale, tra il 2016 e il 2019 ha realizzato un intero album ispirandosi a questi disturbi neuro cognitivi: Everywhere at the End of Time è composto da melodie malinconiche e disturbanti, alcune campionate dalla colonna sonora di Shining, che si ripetono in un loop infinito e disgregante. A tal proposito è interessante notare come l’ipotesi dell’esistenza di questi luoghi vada di pari passo con la divergenza tra la mente e corpo, facendosi veicolo di un’altra paura comune, diffusa in ampia scala: la perdita del controllo. 

Fin dall’antichità siamo affascinati da ciò che ci è sconosciuto e che sfugge al nostro raziocinio, e abbiamo cercato di dare forma alla nostre paure per contenerle ed oltrepassarle. La supposizione che in un luogo, apparentemente vacante e disabitato, si possa celare un segreto occulto, non fa che aumentare il grado di allarme e seduzione che quel luogo esercita su di noi. Gli spazi liminali si insinuano quindi nel nostro immaginario artistico parafrasando il ruolo del Purgatorio dantesco: ci spaventano, ancora più dell’Inferno, proprio perché sembrano reali.