
Gli stage di moda sono ancora terribili C'è poco da imparare?
«All'inizio è stato difficile trovare un buon equilibrio tra lavoro e vita privata, perché tutte le comunicazioni avvenivano tramite Whatsapp e non era stato stabilito un orario di lavoro preciso», racconta una testimonianza anonima. «Ricevevo messaggi sul lavoro dalle 6 alle 2 del mattino la maggior parte dei giorni, inoltre non c'era un ufficio in cui lavorare, quindi dovevo lavorare da sola nei bar». Su Design Interns Club, un Google Doc aperto nel 2020 per dare voce a studenti e giovani designer che hanno vissuto esperienze di stage, centinaia di esempi del genere dimostrano che le internship nella moda continuano a fare passare impieghi professionali traumatici, non retribuiti e privi di reale formazione, come una tappa inevitabile per accedere alla industry. Il sito nasce come reazione collettiva per raccogliere testimonianze, così da concedere agli altri giovani creativi la possibilità di sapere a cosa vanno incontro prima di accettare un qualsiasi stage presso brand e aziende di moda. Troppo spesso, infatti, gli studenti di moda restano affascinati da pagine Instagram ben curate, per poi venire schiacciati da stage inutili o, peggio ancora, logoranti.
La questione degli stage non retribuiti nella moda è un cortocircuito ormai diffusissimo che le università - pubbliche e private - faticano a intercettare. Difficile, in effetti, valutare la consistenza di un’attività se gli unici dati concreti sono un feed curato e le coordinate societarie associate. Eppure, in molte facoltà, le internship vengono riconosciute a livello burocratico, firmate e certificate come se fossero davvero fruttuose esperienze professionali anche se non prevedono alcun rimborso né una reale dinamica di affiancamento. Questo fenomeno non è solo estetico, ma ha radici profonde in tutta la sfera creativa: come evidenzia il Guardian in un articolo dello scorso febbraio, «Il settore creativo ha fatto ricorso agli stage non retribuiti così a lungo, senza conseguenze, che è diventato un metodo consolidato[…] Ma in realtà stanno solo sfruttando i giovani». Il tutto, anche se normative italiane ed europee prevedono che nei tirocini post‑laurea ci siano un minimo di compenso e un percorso formativo strutturato.
Dopo il boom del lavoro e dello studio in remoto degli ultimi anni, l'idea che per imparare si debbano fare stage in presenza potrebbe sembrare un po' antiquata, eppure non saranno certo i messaggi su Whatsapp all'una di notte o le call su Zoom con il mentore sempre in viaggio a lasciare il segno. Il ricordo si forma altrove: in una presenza reale, in uno spazio vissuto, in un dettaglio tangibile che resta nella memoria. Oggi, invece, capita sempre più spesso che i tirocini si facciano in solitudine, senza luogo né presenza. Un effetto collaterale di una cultura onlife in cui tutto è fluido, mobile, delocalizzato, che va benissimo solo quando si è accumulata una certa esperienza. Nel momento dell’apprendimento, la presenza resta cruciale. Non si cresce portando avanti piccole to-do list da remoto e il design non è solo estetica. Serve un cambio di paradigma: distinguere tra visibilità e professionalità, tra creatività autentica e vetrine narcisistiche che chiedono “supporto” solo per alimentare l’ego di chi le gestisce.













































