Cosa succede se il CEO di un brand va in burnout? Tra pettegolezzi e congedi, anche i grandi capi iniziano a esaurire le forze
Ogni volta che una crepa appare su un edificio, è facile vederci dentro il presagio di un prossimo crollo. E, in questi giorni, sono apparse crepe nell’edificio della moda che non si erano mai viste prima. Non ci riferiamo ai fatturati in calo, ai pettegolezzi di direttori creativi che si scontrano con i team del brand o alla girandola di uscite e ingressi ma a qualcosa di apparentemente meno importante: i CEO in burnout. Dopo l’editoriale de Il Foglio uscito ieri su Valentino, in cui si dice che il CEO Venturini si fosse congedato per motivi di salute e il report di Miss Tweed in cui si legge che «è stato riportato che Pietro Beccari, amministratore delegato di Louis Vuitton, la principale fonte di profitto del gruppo, stia soffrendo di una profonda stanchezza, qualcosa che assomiglia a un burnout», negli ultimi giorni anche Gianfranco D’Attis ha abbandonato il ruolo di CEO di Prada dopo due anni e sette mesi per motivi poco chiari, secondo diversi analisti legati a performance meno esplosive del previsto. Proprio oggi, anche Adrian Cheng ha rinunciato al ruolo di direttore non-esecutivo per «dedicare più tempo al servizio pubblico e ad altri impegni personali», dopo aver rinunciato a quello di CEO in settembre a causa di profitti in calo per l'azienda di famiglia. Cheng, per chi non lo ricorda, era stato l’investitore che avrebbe dovuto risollevare 1017 Alyx 9SM – progetto smantellatosi dietro le quinte e concluso con l’uscita del founder stesso, Matthew Williams, che ora si sta dedicando a un nuovo progetto. La cosa che colpisce di più, comunque, parlando dei gossip su Venturini e Beccari, è che per la prima volta in assoluto i report si riferiscono al peso che lo stress sta avendo su dei giganti dell’industria che hanno timonato questi imperi per anni, e anche la prima volta che questi gossip arrivano in coincidenza temporale perfetta. Il che ci porta a chiederci: ci sono altri segnali che il mondo degli executive stia entrando in burnout?
@waivly OpenAI CEO Sam Altman on the importance of momentum and why burnout doesn’t come from working too hard #OpenAI #Founder #Entrepreneur #Startup #CEO #Business #Burnout original sound - Waivly
Lo scorso marzo, Financial Review ha calcolato che, solo nel 2024, 202 CEO globali hanno lasciato il proprio incarico, superando la media degli ultimi sei anni di 186. Preoccupante è il fatto che quasi un terzo di questi ha deciso di ritirarsi completamente da ruoli esecutivi – segnale crescente che il burnout non è solo un malessere temporaneo, ma una forza capace di porre fine a una carriera. Come ha raccontato un ex CEO a Financial Review: «È un ottimo lavoro, ma non vale un infarto». Anche secondo Inc. il livello di burnout dei CEO ha raggiunto livelli spaventosi: l’82% ha detto a Deloitte di sentirsi in burnout e il 96% ha affermato che la propria salute mentale fosse peggiorata. Il problema però non è solo il morale perché, secondo un articolo di Fortune dello scorso aprile, il costo economico del burnout (calcolato in termini di assenteismo, giorni di malattia, lavoro arretrato e turnover) cresce esponenzialmente con il livello gerarchico. Uno studio pubblicato sull’American Journal of Preventive Medicine, anch’esso riportato da Fortune, ha stimato che se un lavoratore in burnout “costa” alla sua azienda tra i 3.999 dollari e i 4.257 dollari; per i manager, il costo sale a 10.824 dollari e per i dirigenti, la cifra esplode a 20.683 dollari a persona. Come spiega l’articolo, il burnout nella leadership si manifesta con leader esausti, disinteressati o impazienti che innescano un effetto domino nei team in cui si diffonde la sfiducia. Secondo un’altra fonte, invece, il problema potrebbe essere sul punto di espandersi ulteriormente.
Do you know who the most dangerous people in a company are?
— Victoria Repa (@RepaVictoria) November 28, 2024
Burned-out leaders.
Today, 65% of leaders show burnout symptoms.
Here are the 8 stages of burnout we can’t afford to ignore. pic.twitter.com/G7JjN5cacA
Il Financial Times ha pubblicato da poco un articolo sul declino del “CEO seriale”. Nel 2023, l’85% dei nuovi CEO (ovvero 187 su 220 nomine in 13 principali indici azionari) era alla prima esperienza, secondo Russell Reynolds Associates, ed è il settimo anno di fila in cui i CEO esperti rappresentano una minoranza. «Il declino dei CEO seriali riflette probabilmente la natura del ruolo oggi», ha detto Laura Sanderson, co-responsabile per l’Europa di Russell Reynolds, al giornale. «È un ruolo ad alta pressione, ad alto rischio, e incredibilmente esposto». Nell’articolo si fa riferimento a Luca de Meo, raro esempio di “CEO seriale” recentemente nominato a capo di Kering - una nomina considerata un’eccezione in un contesto globale dove non solo i rischi sono sempre più alti e il ruolo sempre più complesso, ma anche in cui è difficile concludere il proprio incarico con una reputazione intatta. In effetti, anche la durata media degli incarichi si sta accorciando con un numero record di dirigenti che hanno lasciato nel 2024 ha ricoperto il ruolo per meno di tre anni – nella moda, i “leadership reshuffle” vengono annunciati con un ritmo ben maggiore nel caso di gruppi come LVMH o Kering. Ad ogni modo, considerato lo stato di panico in cui devono trovarsi i mega-brand della moda (nel caso di Valentino si parla di un calo del fatturato del 22%) e il ritmo a cui i nomine e spostamenti si succedono, non è uno shock che i mega-manager di un settore in crisi abbiano raggiunto il proprio limite fisico. In effetti, come potrebbero continuare a produrre crescita costante in un sistema sempre più contraddittorio? Se i prezzi della moda scendessero domani, entro fine estate l’intera industria sarebbe tornata a prosperare. Per questo, nel caso dei CEO in burnout, non vorremmo incolpare i giocatori, ma il gioco.