
La mia idea di moda di Vittorio Lingiardi
A pochi giorni dall’uscita del suo nuovo libro - Farsi Male, ed. Einaudi - la newsletter di questo giovedì ospita la firma di Vittorio Lingiardi, saggista, psichiatra e psicoanalista italiano, professore ordinario di Psicologia dinamica presso la Facoltà di Medicina e Psicologia dell'Università degli Studi di Roma "La Sapienza". Lingiardi si serve delle parole di Roland Barthes e le compara ai giorni d'oggi per interrogarsi sul significato del termine "moda". Siamo ormai ben lontani dagli anni ‘60 in cui scriveva il critico francese, eppure le sue teorie continuano a trovare terreno fertile. Forse perché, mentre le mode passano, tornano e si reinventano, la vanità dell’uomo rimane invariata.
Lingiardi discute della moda come identità, non vestiario. Come strumento per capire che posto abbiamo nel mondo e comunicarlo all’altro, non per coprirci nelle giornate fredde e contrastare il caldo in quelle estive. Che si tratti di tenere la barba lunga, curata o sfatta, di non stirare le camicie o di portare l’orlo dei jeans scucito, in fondo, ogni scelta stilistica che adottiamo suggerisce la nostra posizione culturale, a volte persino le nostre tendenze politiche.
In un periodo in cui la politica ricopre un ruolo centrale nella fashion industry, sia per quanto riguarda le leggi di mercato - basti pensare ai dazi che Trump sventola sulla testa dei marchi di tutto il mondo - che quelle di stile - e qui riportiamo alla mente il boom del conservatorismo in passerella e nello street style, quarter zip sui rapper annesse - la moda è ideologia. Perché vestiamo oggi? Secondo Lingiardi, è una questione di estetiche, siano esse nate dal basso o dall’alto, così come una questione di corpo, che riscriviamo attraverso l'abito a volte in modo innaturale. Quanto il corpo definisce l’indumento, e viceversa? A voi l'ultima parola.
Che cosa scrivo di moda, io che so poco di moda? Mentre mi canticchio questa canzoncina mi viene in aiuto una divinità personale, Roland Barthes, con il suo Sistema della Moda (1967). Divinità personale per esempio perché scrive: «Io sono una bambola Daruma, a cui si danno incessantemente dei buffetti, ma che alla fine riprende sempre il suo equilibrio, assicurato da una chiglia interna (ma qual è la mia chiglia? la forza dell’amore?)». Tornando al Sistema della Moda, si tratta di uno studio di frasi tratte dalle riviste di moda (del tipo “quest’anno va di moda il blu”), un viaggio nei codici vestimentari. Un lavoro, dice Barthes, che «non verte né sull’indumento né sul linguaggio, ma, in qualche modo, sulla ‘traduzione’ dell’uno nell’altro, nella misura in cui il primo sia già un sistema di segni».
La moda non come fatto estetico, dunque, ma come sistema strutturato di segni che produce significati: un linguaggio. Barthes non studia gli abiti reali, bensì la moda scritta, dove il vestito diventa racconto, simbolo, ideologia (un altro esempio: “Ama gli studi e i surprise-party, Pascal, Mozart e il jazz freddo. Porta tacchi bassi, fa collezione di piccoli foulard, adora i maglioni decisi del fratello grande e le gonne sbuffanti e fruscianti”). L’oggetto vero scompare e resta la sua descrizione, la stoffa diventa materia del discorso. La moda non “come ci dobbiamo vestire”, ma “come dobbiamo essere”: un dispositivo che regola identità, desideri, ruoli sociali. Partendo dall’idea che la moda è soprattutto il modo in cui il vestito viene “raccontato” più che “indossato”, Barthes finisce per affermare che la moda ha bisogno del corpo, ma al tempo stesso lo cancella. Il corpo “reale”, fisico - con le sue misure, le imperfezioni, le posture - sparisce e viene sostituito da un corpo astratto, una sorta di manichino linguistico che serve da supporto neutro ai significati degli abiti. La moda non descrive mai il corpo, ma ciò che il corpo deve fare per valorizzare l’abito: nascondersi, slanciarsi, aderire, disciplinarsi. In questo senso, la moda non rappresenta il corpo, lo norma; non lo esprime, ci scrive sopra; non lo ascolta, lo addestra. Nel discorso barthesiano, il corpo diventa un effetto della moda: non un dato naturale, ma un costrutto culturale idealizzato e modellato. «La moda», scrive in una sintesi brillante, «consiste nell'imitare ciò che, in un primo momento, si presenta come inimitabile».
Siccome so poco di moda, non so se le osservazioni di Barthes del 1967 siano ancora attuali. Se la moda, cambiando, è cambiata nel suo statuto epistemologico. Col passare del tempo mi sembra che la sua inimitabilità si sia arricchita della ratificazione più o meno pregiata di avventure estetiche nate dal basso. Tra i molti piani di lettura suggeriti da Barthes, quello che mi interessa di più è la relazione tra l’abbigliamento e il corpo di chi lo indossa. Forse per me il “sistema della moda” funziona all’inverso. Quello che guardo è quanto il corpo riesce a trionfare sulla moda, quanto il corpo definisce l’indumento. Non mi importa se costoso o povero, elegante o meno, tradizionale o inatteso: mi interessa come l’indumento entra in dialogo con la personalità corporea di chi lo porta. Che è fatta di marcatori estetici o erotici che parlano in modo diverso a ciascuno di noi: occhi a mandorla, zigomi alti, mani grandi, sorrisi diastematici, seni piccoli, orecchie a sventola, gambe lunghe, storte, corte. È «l’immenso vocabolario dei volti e dei profili», dice ancora Barthes, «in cui ciascun corpo (ciascuna parola) non significa che sé stessa e rinvia purtuttavia a una classe». In questo modo possiamo provare sia «la voluttà di un incontro» sia «l’illuminazione di una tipologia (il felino, il paesano, il tondo come una mela rossa, il selvaggio, il lappone, l’intellettuale, il tonto, il lunare, il raggiante, il pensieroso)». E venire toccati da un incantesimo al tempo stesso sensuale e cognitivo: ciò che sembrava inclassificabile e inimitabile trova finalmente il suo posto.
Quindi non ho preferenze esclusive, mi piacciono i pantaloni baggy e le camicie botton down, i materiali riciclati e le giacche di velluto, il blu notte e il verde bosco, ma anche i colori pastello. Dipende da come li portano i corpi nella loro verità fisica e culturale. Certo, ho i miei standard estetici e rimango perplesso davanti ad alcune mode (più del corpo che dell’abito): unghie troppo decorate, per esempio, e barbe troppo curate o tatuaggi troppo seriali. Pratiche che osservo come controcanti alla mia idea di corpo vivente, non plastificato, unico nel dialogo con il contesto e con il “sistema della moda”. Spero in un corpo che possa vivere reinventando, trasformando e sovvertendo ciò che gli viene indicato come moda. Un corpo che - con la sua vitalità, il suo modo di abitare il mondo, le sue culture locali, geografiche, politiche, sessuali - dia valore o bellezza o grazia o potenza al vestito, e non il contrario.













































