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La Gen Z è sempre più in burnout? E soffrirebbe di disturbi mentali più di qualsiasi altra generazione precedente

Negli ultimi anni, i casi di burnout sono sempre più comuni tra i giovani statunitensi. Una recente indagine ha rivelato che l'età media in cui si sperimenta un picco di stress è di circa 40 anni, ma per la Gen Z e i millennial questa forma di malessere sembra manifestarsi molto prima – già intorno ai 25 anni. Secondo lo studio in questione, condotto su 2mila persone dall’ente di ricerca statunitense Talker Research, per i giovani adulti il lavoro rappresenta la principale fonte di stress (33%), seguito dalle difficoltà economiche (27%) e dalla salute mentale (24%). Per le generazioni più anziane, invece, le preoccupazioni principali riguardano la politica (27%) e la salute fisica (24%). Nonostante le differenze di età nel campione analizzato, il report evidenzia un aumento del disagio psicologico su più fronti – soprattutto tra gli under-30. Addirittura, un terzo degli statunitensi ritiene che il 2025 sarà l'anno più stressante della propria vita. Gran parte dei soggetti intervistati ritiene che entrare nell'età adulta oggi sarebbe più difficile rispetto a dieci anni fa, e oltre il 70% crede che nel prossimo decennio la situazione diventerà ancora più complessa.

In generale, nella popolazione statunitense i livelli di ansia – rimasti abbastanza invariati nei primi anni Duemila – secondo numerosi studi sono cresciuti di oltre il 50% tra il 2010 e il 2019. In questo contesto, il numero di suicidi è aumentato di oltre 40 punti percentuali nella fascia di età compresa tra i 10 e i 19 anni. Tendenze simili sono state riscontrate nello stesso arco temporale anche in altri Paesi anglosassoni, oltre che in Scandinavia e in diversi Stati europei. In sintesi, secondo varie analisi, la Gen Z soffrirebbe di disturbi mentali più di qualsiasi altra generazione precedente. «È affascinante — e un po’ preoccupante — vedere come i giovani statunitensi stiano sperimentando picchi di stress in maniera sempre più precoce», dice uno psicologo clinico sentito dal New York Post. «Vedo continuamente nella mia attività ventenni che si sentono già in burnout, qualcosa che in passato non notavo a questa età. Spesso i miei pazienti più giovani mi chiedono: “Perché la vita sembra già così opprimente?”. E non fanno riferimento solo allo stress lavorativo; accusano pressioni di vario tipo – di carriera, finanziarie, relazionali, persino in riferimento alle aspettative imposte dai social media. [...] Il cambiamento è reale e sta avendo un impatto significativo». Nel corso degli anni sono state avanzate diverse ipotesi per spiegare i dati negativi riguardanti la salute mentale dei più giovani, negli Stati Uniti e non solo. Molti esperti ritengono che, nonostante la complessità del fenomeno, per identificare le possibili cause del problema sia necessario prendere in esame elementi comuni a tutti i Paesi. I dati, infatti, rivelano che le malattie mentali tra i più giovani hanno registrato un notevole aumento un po' ovunque da quando si sono diffusi gli smartphone. Questo cambiamento è stato accompagnato dalla progressiva importanza – nella vita sociale dei più giovani – dei social network, che spesso sono progettati per creare dipendenza e favorire il cosiddetto doomscrolling.

@drclaireashley It takes 1-3 years to recover from burnout, but recognising that slide into it is really hard. Here are the 5 stages to burnout- have a watch and see where you’re at. If you’re stage 1-3 you have a great opportunity to make some changes before you hit a crisis We also have a burnout quiz in BobbyChat, which will give you a score and some advice about what to do next! Bobby is an AI that talks you through therapy-inspired techniques on WhatsApp. Head over to www.bobby-chat.com to sign up for free! Your conversations are anonymous and confidential. #doctorsoftiktok #workstress #burnout #burnoutfromwork #burnoutsyndromes #worklife #workburnout #mentalhealthatwork #stress #stressrelief #careermistakes #burnoutprevention #youneedtoseethis original sound - Doctoring your work life

Anche in Italia, la situazione è perfettamente in linea con il trend globale. Giusto il mese scorso, Stefania Fregosi – Health Head di Ipsos – in occasione del World Mental Health Day, ha confermato che il tasso di giovani della Gen Z italiani con problemi di benessere mentale si aggira intorno al 40%, un incremento sostanziale se si considera che la media nazionale è al 28%. Ansia, fobie e depressione sono tra i disturbi più diffusi, e a soffrirne maggiormente sono le giovani donne. Un dato confermato anche dal Mind Health Report 2025, un sondaggio annuale di AXA che analizza a livello globale i livelli di salute mentale.Per il terzo anno consecutivo, l’Italia ha registrato la percentuale più bassa di “pieno benessere” tra tutti i paesi dell’Unione Europea, con un tasso del 17%. È proprio la percezione del benessere mentale a essere in calo: nel 2022 era stata riportata una percentuale del 20%, scesa al 18% nel 2023. Ogni anno, il lavoro si riconferma la causa principale di stress e ansia, soprattutto tra i più giovani. Secondo il report di quest’anno, a livello globale il 57% dei giovani ha dichiarato di trovarsi in forte difficoltà sotto il profilo mentale – un dato che va di pari passo con il 53% dei lavoratori intervistati che presentano livelli d’ansia superiori alla norma.

Di fronte alle crescenti difficoltà nel gestire il peso dello stress, alcuni giovani lavoratori stanno sperimentando precise strategie per bilanciare vita privata e carriera professionale, nel tentativo di non finire in burnout. In questo contesto, un concetto che sta guadagnando popolarità è quello della "micro-retirement" – una sorta di pausa temporanea dal proprio percorso professionale, con l’obiettivo di dedicarsi maggiormente a sé stessi. Il termine, coniato nel 2007 dal guru dello stile di vita Timothy Ferriss, è recentemente tornato alla ribalta grazie ai social network. L'idea di fondo è che non è necessario attendere la pensione per godersi a pieno la vita, ma che sia meglio prevedere una serie di pause dal lavoro lungo tutto il percorso professionale. Questo approccio si differenzia da un tradizionale anno sabbatico perché punta a diventare un vero e proprio stile di vita, dove vengono alternati periodi di lavoro a momenti di stop più o meno lunghi. Tuttavia, non mancano le perplessità, soprattutto in merito alla sostenibilità economica della pratica – rendendo questa opzione un po’ naif e, in sostanza, difficilmente realizzabile per molti giovani lavoratori. Questo trend si inserisce in un più ampio fenomeno, noto come “quiet quitting” – sintetizzabile come “licenziarsi senza licenziarsi”. Negli ultimi anni la pratica è sempre più popolare tra i lavoratori under-30 e non solo, nell’ottica di slegare la propria identità dalla carriera professionale, vivendo così la dimensione lavorativa in maniera meno stressante.