A Guide to All Creative Directors

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La sporca eredità di American Apparel

Dopo il nuovo documentario di Netflix è tornata un po’ di nostalgia

La sporca eredità di American Apparel Dopo il nuovo documentario di Netflix è tornata un po’ di nostalgia

Helvetica bold, sfondi bianchi e tanta, forse troppa, sfacciataggine. Per chi è cresciuto a pane e Tumblr, American Apparel più che un brand era diventato un culto. Le immagini delle campagne pubblicitarie riuscivano, collezione dopo collezione, a raggiungere livelli inauditi di viralità, in un mondo dove Internet e i social media erano ancora agli albori. La ragione era semplice: più che il prodotto, il brand made in America vendeva “sesso”, in un momento in cui la moda e tutta la pop culture erano incentrate su quello che oggi verrebbe definito soft porn. Il branding di American Apparel era al cavalcavia tra la spudoratezza del Gucci di Tom Ford e la coolness di Topshop, un binomio adorato dalla generazione del vero indie sleaze. Eppure, dietro le quinte, il brand era un disastro. Il nuovo documentario di Netflix Trainwreck: The Cult of American Apparel ha ripercorso tutta la storia di AA, dagli albori nel 1989 fino alla bancarotta del 2016. Nel mentre i teenager e i giovani di tutto il mondo cercavano in tutti i modi di accaparrarsi le tennis skirt cortissime, i disco pants cangianti e le felpe neon, i dipendenti del brand vivevano nel terrorismo più totale del fondatore e CEO Dov Charney. Sono state proprio le accuse di molestie sessuali e di mobbing a far finire American Apparel nel dimenticatoio, una delle primissime vittorie della cancel culture moderna (un po’ com’era successo anche ad Abercrombie & Fitch). In un’era culturale pudica, con fortissime influenze conservatrici che arrivano da ogni parte, dove Sabrina Carpenter è stata considerata anti-femminista dopo aver svelato la sua nuova cover art, c’è ancora spazio per la nostalgia dell’estetica di American Apparel? O siamo fondamentalmente andati avanti, lasciando tutto il sex appeal nel decennio passato?

Il brand fondato a Los Angeles aveva costruito la propria identità su immagini provocatorie, trasgressive, al limite del voyeurismo con scatti di corpi femminili fortemente sessualizzati e messaggi volutamente espliciti, tramite le pose delle modelle o tramite gli slogan con doppi sensi. American Apparel aveva trovato uno stile unico e di grande impatto per raccontare la propria estetica: le campagne erano spesso costituite da immagini semplici, pulite, quasi documentaristiche, non ritoccate, foto scattate in vere case o su set monocromi, che ritraevano spesso persone comuni, clienti del brand, volti da street casting. Il più delle volte, i modelli venivano fotografati in pose provocanti, simil-pornografico. Certo, a posteriori, sapendo tutte le controversie che hanno seguito il brand dalla sua nascita fino agli ultimi giorni, quella libertà sessuale tanto idolatrata nei primi anni 2000 viene ora vista con occhi diversi – il che è sicuramente un bene. Ma forse la nostalgia velata per quell’estetica e quel tipo di sfrontatezza deriva dal fatto che, in questo momento, la moda è restia a tutto ciò che potrebbe essere sensuale. Tra milkmaid dress, quiet luxury e moda modesta è morta anche l’office siren, l’ultima rappresentazione di una moda volutamente sexy. Le pressione politiche hanno il loro risultato sul mondo della moda, ma ad aumentare l’attitude “anti-sesso” è in circolo vizioso della Gen Z, che da un lato cerca di liberarsi dai rigori della monogamia e delle label, e che, dall’altro, ha abbracciato canoni modesti e tradizionalisti. La generazione che non fa sesso ma che vive di ethical non-monogamy.

@sailorkiki Obviously wearing my docs & posting the outfit pics on tumblr #american #americanapparel #fourthofjuly #lanadelrey national anthem demo - jess

Eppure, qualcosa di quell’universo non è mai scomparso del tutto. Negli ultimi anni, TikTok ha rispolverato l’indie sleaze, trasformandolo in trend virale e riportando in auge body in lycra, flash sparati fatti da fotocamere digitale. Brand come Skims e Diesel hanno cercato di emulare l’eredità visiva di American Apparel, aggiornandola con nuovi codici estetici e comunicativi più inclusivi. Anche lo stesso AA è tornato, sotto il nome di Los Angeles Apparel, ma con una direzione diversa e un’estetica molto meno accattivante, perdendo anche il Made in America di cui era così fiero. Graficamente parlando, lo stesso Helvetica bold è tornato a occupare il branding di artisti e brand. Ma, nonostante questi richiami, nessuno sembra davvero voler affrontare di petto quella sfacciataggine cruda, un po’ sporca, profondamente politica, che American Apparel metteva in scena. Forse perché, oggi, non ci fidiamo più del sex appeal come linguaggio commerciale, o forse perché, semplicemente, non ci sentiamo più così liberi da poterlo esibire. Nel caso abbiate bisogno di un ripasso sulle scandalose campagne, nss magazine ha dedicato un’edizione speciale del gioco Fashion or Porn al brand Made in America. Mettetevi alla prova, riuscite davvero a distinguere tra cinema per adulti e le pubblicità di American Apparel?