
Possiamo fidarci delle app AI per lo styling?
Gli strumenti potenziati non sanno fare layering
24 Giugno 2025
A tutti è capitato quel blocco davanti all’armadio, quel «che cosa mi metto oggi?» che fa perdere minuti, o addirittura ore, nell'indecisione. Oggi, però, basta aprire un’app-stylist come Acloset o StyleDNA e caricare una foto del tuo guardaroba, o inviare a ChatGPT un prompt dettagliato su cosa si ha, e l’algoritmo genera un outfit in pochi secondi: il gioco è fatto. Il risultato, però, è quasi sempre lo stesso: blazer chiaro, jeans dritti, sneaker bianca. Come sottolineato da Vogue Italia, che ha testato ChatGPT per una settimana, le combinazioni proposte si rivelano pressoché identiche giorno dopo giorno. E chi scorre TikTok lo percepisce: l'hashtag #OutfitGenerator conta 2.7K post e sfiora i 7 milioni di visualizzazioni, ma i video mostrano quasi sempre silhouette simili, se non completamente uguali. L’intelligenza artificiale promette personalizzazione ma, allenata sui capi più popolari sui social e facili da produrre, finisce per vestirci tutti allo stesso modo. Non a caso, The Guardian, dopo aver provato Acloser per una settimana, definisce l'uso di queste app «un modo conveniente per ridurre l’individualità e spingere tutti verso il generico.» Proprio perché l’algoritmo semplifica e ripete, i designer rispondono con una strategia opposta: il layering, comunemente conosciuto come "vestirsi a cipolla", per creare un'identità unica. Consiste nel sovrapporre, mescolare, stratificare, un gesto che introduce complessità e disordine nella divisa minimal prodotta dalle macchine.
@thebeautepost I have another #aifashion hack inspired by #chatgpt #chatgptfashion #fashionguide #wardrobe #outfitinspo #fashionhack #outfitideasforyou #outfitcheck #ootdinspiration #OOTD #fashiontiktok #bayarea #sf #sfvlog #sanfrancisco #girlsintech #fashiontech Tell Me When to Go (feat. Keak da Sneak) - E-40
Per la SS25, il direttore creativo di Rabanne Julien Dossena costruisce ciò che definisce «una scatola con le gambe» - giacca su giacca su camicia mezza sbottonata a righe su t-shirt, il tutto su boxer-short o minigonna. Tutti gli strati sono tagliati alla stessa altezza in modo che l’intero gioco di layering resti concentrato in una sorta di cubo sulla parte superiore del corpo. Questo blocco compatto rompe la monotonia algoritmica. Al contrario The Row, nella collezione SS25, adotta un layering costruito su sovrapposizioni lineari e proporzioni ponderate. Nessuna scenografia da show e nessun telefono, come se volessero proteggere un’idea di moda che si vive prima di essere condivisa. Una t-shirt bianca lunga su una minigonna nera e pantaloni khaki ampi, con infradito rossi che interrompono la palette neutra. Ogni strato è definito e in un colpo solo The Row mostra che la sovrapposizione non è necessariamente eccesso ma può essere sottrazione calibrata. Con la SS25 di Collina Strada, invece, il layering prende forma in modo fluido e spontaneo. Una tutina stampata si intreccia con tessuti lucidi color limone, drappeggiati e arricciati, che lasciano intravedere pantaloni beige con lacci laterali. Le stratificazioni non seguono una logica fissa, ma si muovono con il corpo, moltiplicando texture e asimmetrie.
Anche Coach per la SS25 reinterpreta il layering, trasformandolo in un gioco pop: la classica t-shirt "I ❤️ NY" spunta sotto un abito anni '70 a stampa lime, completato da una maxi borsa decorata. Il risultato è un collage di riferimenti kitsch e souvenir urbani, più da cartolina che da passerella. La stessa tensione si ritrova in Magliano, Junya Watanabe e Ludovic de Saint Sernin. Magliano destruttura con una tuta grigia dalle zip profonde, pantaloni asimmetrici e blazer slabbrati, il tutto completato da ciabatte imbottite. La rottura delle proporzioni diventa cifra distintiva. Watanabe, invece, lavora su sovrapposizioni geometriche, spesso abbinate a silhouette oversize. Per finire, Ludovic de Saint Serin mixa lingerie e streetwear: top su body e abiti su pantaloni. Per ognuno di loro, il layering non è solo estetica ma linguaggio progettuale: uno strato in più diventa un messaggio. Questo approccio non resta confinato alle passerelle. Anche la moda di strada lo adotta come gesto di libertà. Brad Pitt è stato fotografato con una maglia termica sotto una T-shirt macchiata, abbinata a pantaloni Magliano cuciti con tessuti diversi. «Si tratta di mettere insieme i pezzi per provare a creare qualcosa di nuovo e interessante. I limiti non mi spaventano, anzi, mi costringono a pensare fuori dagli schemi, per superarli,» afferma il designer olandese Duran Lantink in un'intervista per Vogue Italia.
Dove l'AI cerca coerenza, il layering trasforma l’errore in identità. Tuttavia, il layering non è un trend recente. La prima ondata fu nei primi anni Duemila quando tre correnti si incontrano: lo street style Y2K delle gemelle Olsen e di Gwen Stefani, la cultura skate hip-hop della West Coast che impila T-shirt XXL su hoodie e la sperimentazione di direttori creativi come Marc Jacobs, Rei Kawakubo e Yohji Yamamoto che portarono gonne su pantaloni e blazer corti su camicie lunghe sulle passerelle di Louis Vuitton nella FW 2001 e Comme des Garçons nel 2002. Il paradosso è evidente. L’intelligenza artificiale riduce l’outfit a un’equazione facile da vendere mentre il layering risponde con un guasto voluto: patchwork scuri, gonne su pantaloni, corsetti su giacche. È l’imperfezione deliberata che costringe a guardare due volte e ricorda che l’abito, prima di macinare like e ottimizzare KPI, serve a raccontare chi siamo davvero.