
L’iper-nostalgia nella moda blocca la creatività? L’esempio di quattro brand emergenti che sfidano le convenzioni
Sempre più collezioni oggi partono da capi di seconda mano, da ricerche d’archivio, da mercatini o shop che raccolgono oggetti significativi dei brand e dei direttori creativi che hanno lasciato il segno nella storia della moda contemporanea. Forse, è arrivato il momento di fare lo sforzo opposto: liberarsi dalla nostalgia. È pur vero che studiare il passato è fondamentale, dare valore alla seconda mano è utile, ma se ogni nuovo progetto parte da qualcosa di vecchio, allora il rischio è quello di restare bloccati in una spirale estetica, rassicurante ma sterile. Recentemente Harper's Baazar ha sottolineato che «abbiamo raggiunto l'apice della nostalgia nella moda». In effetti, per moltissime collezioni e progetti, l’iper-nostalgia non è più un omaggio critico ma è diventata lo standard. Non serve scegliere tra memoria e innovazione, ma capire che l’ossessione per l’archivio sta prosciugando lo slancio creativo. Ora come non mai, il sistema moda ha bisogno di visioni incerte, fragili, sperimentali. Che partono dalle manipolazioni dei materiali per avere un grado di unicità e provano a costruire un linguaggio con riferimenti personali per sorgere domande, invece che provare a dare insignificanti risposte, poco utili in una situazione dove il lusso stenta a muoversi. Seppure, in un contesto così complesso le realtà che lottano attraverso personalissime visioni e racconti, non mancano.
Quelli di questi brand sono casi dove l'ingegno costruttivo e il racconto personale riescono ad unirsi per favorire la creazione di collezioni con uno spiccato tono di voce. Senza dover ricreare i capi dei maestri del recente passato, come avviene in tutti i grandi brand del lusso. Sarà l'età – dato che i designer elencati sono sono nati tra la fine degli anni ‘80 e l’inizio degli anni ‘90 – o forse sarà il contesto socio culturale in cui sono cresciuti. Forse per alcuni un po' troppo acerbi, ma la sfida più grande oggi è imparare a credere negli altri ed a costruire relazioni, scambi, comunità. Perché solo comunità reali, orizzontali, possono sostenere un’idea di moda indipendente. E perché la moda ha bisogno, ora più che mai, di tutto ciò che ancora non esiste.
Puppets and Puppets
Dalla prima presentazione newyorkese per la SS20 Puppets and Puppets ha tracciato un solco indelebile per i palati più esigenti. Senza sapere la sua storia si poteva chiaramente percepire un background non direttamente collegabile alle scuole di moda, ma all’arte visiva. Infatti Carly Mark, classe 1988 che ha recentemente spostato il suo studio da New York a Parigi, è forse prima di tutto un artista. Il suo mondo, e qui sottolinerei suo, dove si ritrovano tracce di un personalissimo modo di vedere ed interpretare il contemporaneo attraverso l’uso consapevole di oggetti e materiali di partenza da tutti i giorni, incarna perfettamente lo spirito che cerchiamo qui. Un atteggiamento surrealista nella moda contemporanea mancava, dove l’ironia è al centro, e le silhouettes raccontano più di un modo di sentirsi e di esprimersi che di un’estrema tecnica costruttiva che aiuta il racconto ed aiuta a sentirsi parte di questo mondo. Gli accessori fanno sicuramente da padroni nel suo linguaggio e questo, oltre ad essere un potentissimo statement in una fase in cui tutti vogliono far tutto, è una intelligente strategia per posizionarsi e prendersi una nicchia. Purtroppo il brand, per amato che fosse, è finito vittima della crisi della moda: è rimasto ancora aperto, ma si è trasferito a Londra, ha ristretto il proprio team e ora si occupa esclusivamente di accessori.
Camiel Fortgens
Camiel Fortgens è un raro successo fatto di intelligenza, radicalismo e gusto. Infatti il marchio ha molto successo soprattutto nel mercato giapponese. Ed ha inoltre rimesso Amsterdam sulla mappa della moda concettuale anche con una realtà che ha compiuto dieci anni lo scorso anno. Debutta nel 2015 durante la fashion week di Amsterdam e stupisce tutti. Il suo lavoro partiva dalla voglia di costruire abiti ma senza l’obbligo di seguire i dettami tecnici, soprattutto poichè all’inizio Camiel non li conosceva venendo da un percorso alla Design Academy di Eindhoven nel dipartimento Identity e, come progetto, la scelta di realizzare un outfit è stata vincente. Adesso Camiel ed il suo team utilizzano quel linguaggio apparentemente sbagliato, fatto di cuciture esterne, di orli non fatti, di fili non tagliati per donare di nuovi interrogativi alla moda. In questo momento il marchio continua ad aver successo, ed ha un nutrito team nella capitale olandese, senza mai essersi piegato alle dinamiche patinate che spesso il sistema obbliga. Lunga vita a questa realtà che inoltre collabora da tempo con Oficina Gabardine studio che, da molti anni, aiuta silenziosamente alcuni tra i migliori designer Europei.
VeniceW
VeniceW è il progetto della talentuosa Venice Wanakornkul che ora ha base a Londra. Dai suoi primissimi progetti, raccontati sapientemente attraverso il suo profilo Instagram, la designer nata a Bangkok ha fatto entrare moltissimi visitatori ad esplorare il suo mondo fatto di fazzoletti, amore per la carta, e fantasie che dialogano con i media digitali. Un mondo fatto di simboli da lei creati, come l'ossessione per i piccioni, prima di JW, ma raccontati alla sua maniera, con un filtro da prima digitale. Per raccontare il suo lavoro dovremmo tutti studiare e riguardare, con attenzione, la sfilata finale fatta per il suo show di laurea alla Parsons di New York nel 2018. Dopo aver lavorato da Ashley Williams, Yang Li, Telfar ed Eckhaus Latta mostrò al mondo City That$new zZ ZeALot! Una collezione che raccontava di come gli abiti, attraverso le pieghe e gli stress che subiscono durante la giornata, possano modificarsi per intercettare contemporaneamente le nostre esigenze corporali e le ansie delle città in cui abitano. Una poetica dell’umanizzazione degli oggetti che continua a portare con sé in tutte le sue collezioni e che potete anche esplorare nel suo spazio fisico su appuntamento in UK.
Niccolò Pasqualetti
Finiamo con un nome nostrano, Niccolò Pasqualetti, classe 1994. Dopo aver studiato prima allo IUAV di Venezia e poi alla Central Saint Martins di Londra nel 2021 inaugura l'omonimo brand. Il suo linguaggio si sviluppa attraverso una conoscenza e un’attenzione ai materiali tutto Italiano, infatti il suo Atelier è stabile in Italia anche se da ormai diverse stagioni presenta le sue collezioni a Parigi. Il suo lavoro è già fortemente riconoscibile e voluto dalle vetrine più importanti del mondo e l’attenzione della stampa è arrivata in massa negli ultimi anni. Era da tempo che non si vedeva un lavoro così minuzioso alle forme e contemporaneamente una fortissima etica sui materiali scelti e sulle lavorazioni ma senza mettere come statement del brand parole come sostenibilità o responsabilità. In pieno spirito da generazione contemporanea Niccolò da per scontato questi elementi e conosce molto bene le realtà produttive Italiane. Con un piede stabile nel bel paese e l’altro nel mondo ci rende fieri della nostra creatività che sembrava scomparsa.













































