
Cos’è che ha smesso di funzionare per il lusso in Cina?
Analisi di uno scenario complesso, contraddittorio e spesso frainteso
14 Marzo 2025
Per certi versi, le origini della crisi che oggi sta colpendo il lusso erano scritte nelle stesse ragioni che, per dieci anni, ne hanno garantito la prosperità. La malattia che ha colpito il settore della moda può essere interpretata come un problema multifattoriale dal punto di vista finanziario e storico ma le sue ramificazioni si trovano anche su un piano estetico e artistico, oltre che socio-culturale. E uno dei nodi principali di questa crisi, o se vogliamo l’epicentro dei suoi sintomi primari, è stato il mercato cinese. L'anno scorso, il mercato del lusso in Cina si è ridotto di circa un quinto rispetto all'anno precedente, secondo le stime di Bain – sul piano finanziario è stata una strage. Solo nel 2024, il prezzo delle azioni di Kering è crollato del 39,4%, quello di Burberry del 30%, LVMH ha perso il 13% e Moncler il 7,8%. I ricavi di Kering sono scesi dell'11% nel primo trimestre 2024, mentre il suo marchio principale, Gucci, ha registrato un calo del 24% delle vendite in Cina e persino LVMH, di solito inscalfibile, ha subito un calo dell’11% nel quarto trimestre 2024 per l’Asia, escluso il Giappone, che è forse il peggior risultato dalla crisi del 2008.
«La Cina ha sostenuto l'economia di molti marchi globali del lusso per un bel po' di tempo», ci ha detto Ian Hylton, designer del brand che porta il suo nome, ex-direttore creativo di Ports 1961 e oggi anche presidente del popolare brand basato a Xiamen, Ms Min. «I consumatori della Cina continentale, sia all'interno che all'esterno, sono stati una forza trainante per la moda di lusso». Negli ultimi anni circa, il mercato del lusso in Cina è stato il principale motore di crescita per la moda europea e negli anni successivi alla pandemia ha smesso di esserlo. Per capire meglio la situazione, abbiamo contattato, oltre a Hylton, anche un’importante executive di Hong Kong che ha lavorato per dieci anni come manager di altissimo rango per uno dei più famosi brand di lusso italiani nel paese. Per lei, l’arrestarsi della spesa dei consumatori cinesi negli ultimi due anni è dovuta alla combinazione di «alti tassi di disoccupazione tra i neolaureati, declino dei magnati del settore immobiliare, vincoli finanziari per i governi locali, tensioni politiche con altri paesi, diminuzione degli investimenti diretti esteri e politiche del lockdown».
Stratigrafia di una crisi: geografia e classe media
@em.tiaz this is what i imagine heaven to look like #hermes #shopping #shopwithme #shanghai original sound - Emily
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Un primo importante elemento da considerare è quello della geografia, ovvero di come l’abbassamento dello spending è distribuito regionalmente: «La maggior parte dei fattori negativi che influenzano il comportamento dei consumatori sono esterni o riguardano principalmente le città di livello inferiore. È per questo che i mercati delle città di primo livello come Pechino, Shanghai, Guangzhou e Chengdu potrebbero risentire meno delle tensioni», ha spiegato la manager che. Ma la nostra intervistata ha tenuto a fare un’importante specifica: «A essere diminuita in Cina è la spesa della classe media», ci dice, una fascia che «si trova ad affrontare maggiori pressioni finanziarie come ad esempio i mutui e l'istruzione dei figli, rispetto agli individui con un patrimonio netto elevato» i quali invece «possono permettersi la maggior parte degli articoli di lusso anche durante le crisi economiche. Anche se possono spendere meno a causa del deprezzamento dei beni, hanno comunque i mezzi per acquistare». Il che spiega anche come mai un gruppo di brand che nel gergo vengono definiti ultra-lusso, come Hermès o Brunello Cucinelli, hanno continuato a crescere: «I brand con un maggiore contributo da parte di persone abbienti in termini di acquisti di alto valore sono probabilmente in grado di superare i momenti difficili in modo più efficace rispetto a quelli che dipendono eccessivamente dalla classe media».
Ma proprio sulla loro spesa i brand europei avevano scommesso per anni vedendosi poi, nel giro di relativamente pochi mesi, il terreno sparirgli da sotto i piedi. Secondo l’Hurun Wealth Report 2024, citato da JingDaily, il numero di famiglie cinesi con patrimoni superiori a 6 milioni di RMB (830.000 dollari) è diminuito dello 0,3% a 5,128 milioni, con cali ancora più marcati tra le fasce più ricche: quelle con oltre 10 milioni di RMB (1,4 milioni di dollari) sono diminuite dello 0,8%, mentre le famiglie ultra-ricche (oltre 30 milioni di dollari) si sono ridotte del 2,3%. Inoltre, il numero di miliardari in Cina è crollato da 1.185 nel 2021 a soli 753 nel 2024, una riduzione di un terzo, come riporta il giornale, che ha profondamente alterato lo scenario economico nel paese e il suo impatto diretto sul mercato del lusso. «Per la classe media, la sicurezza economica è essenziale prima di riprendere a spendere», ci ha spiegato la manager. «Il valore degli immobili è una pietra miliare per molte famiglie cinesi e, sebbene questo non valga ancora per le giovani generazioni, diventerà rilevante quando erediteranno le proprietà. Il governo sta adottando misure per stabilizzare il mercato immobiliare […]. La sicurezza del lavoro è un altro fattore cruciale. Sebbene la classe media non stia perdendo posti di lavoro, l'attuale clima economico non incoraggia le aziende a investire in nuovi talenti, portando a un eccesso di offerta di laureati rispetto alle opportunità disponibili».
China is facing a youth unemployment crisis. Nearly one in six young people living in urban areas are unemployed. 101 East meets the young graduates struggling to break into China’s highly competitive job market. https://t.co/jlQXy8uLmO pic.twitter.com/PYFfs9MWas
— 101 East (@AJ101East) February 28, 2025
In effetti, mentre le vendite di lusso negli Stati Uniti e in Europa sono rimaste più o meno stabili nel 2024 (comunque basse per gli standard di crescita a cui i brand si erano abituati) la quota della Cina nel mercato globale dei beni personali di lusso è scesa dal 20% nel 2020 al 12% nel 2024, come indicato dal WSJ, mentre il tasso di disoccupazione giovanile urbana ha raggiunto il 15.7% lo scorso novembre per i giovanissimi tra i 15 e i 24 anni; il 6,6% per i giovani dai 25 ai 29 e il 3,9% per i lavoratori tra i 30 e i 59 anni di età – per una media nazionale che si è assestata a dicembre intorno al, 5,1% secondo Reuters. Il ruolo della classe media è centrale. Secondo uno studio di Fortune pubblicato lo scorso mese, tra il 2017 e il 2021 il mercato del lusso in Cina è triplicato proprio grazie alla crescente domanda di beni di lusso da parte della classe media emergente oltre che dei super-ricchi: fu questa combinazione di fasce di spesa che la Cina divenne un ecosistema di cruciale importanza per brand come Louis Vuitton, Gucci e Burberry che hanno visto le proprie fortune moltiplicarsi. Poi come sappiamo è arrivata la pandemia e i lockdown nel paese hanno bloccato i viaggi, costringendo i brand, abituati a vendere ai turisti in città come Parigi e New York, a concentrarsi sul mercato cinese interno.
Il cambio di marcia della clientela
«Credo che il post-pandemia, insieme al rallentamento dell'economia e a un maggiore senso di orgoglio nazionale, abbia spinto i consumatori cinesi a prestare maggiore attenzione ai prodotti e al design locali», ci conferma Hylton che ha fondato il brand che porta il suo nome proprio nel primo anno del lockdown. I brand provano ad adattarsi come possono: Gucci e OTB stanno chiudendo negozi nelle città cinesi di seconda fascia, mentre LVMH sta tentando di riconquistare l’interesse dei consumatori con campagne di marketing di alto profilo, come la sua partecipazione alla China International Import Expo 2024 dello scorso novembre. La ripresa dei brand nel mercato del paese infatti dipende «in gran parte dalla comprensione, dalla comunicazione e dalla conversazione con la clientela, dal capire veramente le esigenze e i desideri del mercato e dal servirli», ci dice Ian Hylton. E di recente, parlando con WSJ, il CEO di Tiffany's Anthony Ledru ha spiegato l'importanza della Cina affermando che il valore medio degli acquisti lì è più alto rispetto agli Stati Uniti, al Giappone o alla Corea anche se puntare solo sui consumatori più facoltosi potrebbe non essere sufficiente a compensare la contrazione complessiva del mercato.
Un altro fenomeno che ha dato il colpo di grazia ai consumi è stata la cultura dei "dupe": inizialmente, come spiega WSJ, tutto è iniziato con il lockdown e con i primi aumenti dei prezzi, giunti in un momento di debolezza economica, che hanno spinto molti consumatori a cercare repliche di quei design. Col tempo però, si è passati dalle contraffazioni alla ricerca di brand locali, capaci di offrire gli stessi design con un rapporto prezzo/qualità decente. Il fenomeno ha portato un boom di vendite a brand come Songmont, Oleada o Cafunè che sono i corrispettivi cinesi di simili brand di borse emersi di recente in Europa come Polène, Euterpe o Demellier per citare alcuni nomi. Anche la manager anonima conferma questo dato: «Con l'aumento del patriottismo dei consumatori cinesi, cresce la preferenza per il sostegno ai marchi locali di eccellenza, oltre a un particolare apprezzamento per i marchi occidentali che abbracciano la cultura cinese, ad esempio attraverso collaborazioni tra Oriente e Occidente».
You don't own a SONGMONT !! pic.twitter.com/xBPJut4Q6W
— Homa PBD / 0193 (@HMshoppers) February 8, 2025
Per i brand occidentali il problema «non è la questione del value-for-money», ci dice la manager di Hong Kong, ma di strategia e clientela. «Brunello Cucinelli ha stabilito una forte presenza in Cina nel corso del tempo e ha recentemente prosperato grazie alla crescente tendenza del “quiet luxury”, mentre Hermés, in particolare nella categoria delle borse, si concentra molto sugli individui ad alto reddito e le sue borse non si svalutano», ci spiega, notando che «il valore di rivendita è particolarmente significativo nella categoria delle borse, poiché il mercato dell'usato aumenta notevolmente la popolarità del brand. Questi individui con un elevato patrimonio netto potrebbero non avere intenzione di vendere i loro articoli di lusso, ma apprezzano comunque la rivalutazione del loro valore nel tempo. Gucci, ad esempio, ha registrato un calo delle vendite a causa del deprezzamento del valore di rivendita». I due brand, Hermès e Brunello Cucinelli, in sostanza «hanno adottato una strategia di espansione al dettaglio più lenta rispetto alla rapida crescita registrata da LVMH e Kering, che si sono espansi in modo aggressivo, determinando un eccesso di offerta di punti vendita nelle città di primo e talvolta anche di secondo livello».
Segnali di cauto ottimismo
@channelnewsasia China laid out its game plan for 2025, with Premier Li Qiang outlining his country's economic priorities and targets amid a worsening trade war and global uncertainty. Here are 5 key takeaways from the opening of the National People’s Congress at the annual Two Sessions. (Video: CNA/Hu Chushi & Lan Yu)
original sound - CNA
I dati dicono che a essere in crisi è il mercato dei beni di lusso interno al paese, dato che, come dimostrato da un report di McKinsey pubblicato lo scorso settembre, «la Cina continua a registrare dati di crescita del PIL intorno al 5%. [...] I consumi interni, sebbene modesti, sono in crescita. Alcuni settori, come i servizi e il turismo, stanno registrando una crescita robusta, il che indica che l'economia non è in declino uniforme, ma mostra prestazioni diverse tra i vari settori e regioni. Inoltre, mentre il consumo di prodotti può apparire complessivamente piatto, alcuni settori come l'abbigliamento sportivo, l'abbigliamento urbano all'aperto e la salute dei consumatori hanno registrato una crescita a due cifre, riflettendo la continua forza di questi mercati». Sempre secondo lo stesso report, poi, si è vista una ripresa delle spese all’estero della clientela cinese. Nel primo semestre del 2024, la spesa dei consumatori cinesi per beni di lusso all'estero ha già superato i livelli del 2019, non solo molto prima di quanto ci si aspettasse ma nonostante il fatto che i viaggi all'estero non sono ancora completamente tornati ai livelli pre-pandemia.
Nel maggio 2024, la spesa per il lusso all'estero è stata superiore del 32% rispetto al 2019, seguita da un incremento del 22% a giugno. «I consumatori cinesi sono spesso a caccia di occasioni», spiega la manager di Hong Kong, «se lo yen rimane basso, è probabile che la spesa in Giappone continui. Inoltre, molti individui ad alto reddito si recano all'estero per fare shopping a causa delle differenze di prezzo. Attualmente, i consumatori cinesi tendono a preferire l'Europa agli Stati Uniti per le vacanze lunghe, anche se gli Stati Uniti potrebbero riacquistare interesse quando le tensioni politiche si attenueranno. Anche i tassi di cambio delle valute giocheranno un ruolo importante nel determinare dove i consumatori cinesi sceglieranno di spendere». Diverso è il discorso per la classe media, ma la nostra intervistata si dice ottimista: «Il governo sta adottando misure per stabilizzare il mercato immobiliare e segnali positivi in questo settore potrebbero aumentare il senso di sicurezza della classe media» mentre sul piano della disoccupazione giovanile «se il governo riuscirà ad attuare politiche per migliorare questa situazione, aumenterà la fiducia nell'economia». Secondo McKinsey, la fiducia rimane comunque alta: «I consumatori cinesi sono tra i più fiduciosi al mondo», si legge nello studio. «Nell'ultimo sondaggio di agosto, il 59% dei consumatori cinesi ha dichiarato che l'economia si riprenderà nei prossimi 2-3 mesi, rispetto al 41% dei consumatori americani, al 30% dei consumatori britannici e al 13% dei consumatori giapponesi».
L’aumento degli acquisti di lusso all'estero suggerisce che il desiderio dei consumatori cinesi per i beni di lusso rimane forte, ma subordinato a fattori tra cui la convenienza economica del tax-free, l'esperienza dello shopping all'estero e l'esclusività degli articoli che potrebbero non essere disponibili in Cina. Secondo l’interpretazione di McKinsey, questo è il motivo per cui tanti brand stanno ridimensionando il loro network di retail nel paese aumentando i loro budget per il marketing. Il report dice che il numero di nuovi negozi aperti è sceso a 111 nel primo semestre del 2024 rispetto ai 150 dello stesso periodo nel 2023, ma le attività di marketing come eventi offline e installazioni artistiche sono aumentate da 36 nel 2023 a 53 nella prima metà del 2024. In generale, tantissime aziende di altri settori continuano a investire pesantemente nel paese come molte realtà dell'industria automobilistica tedesca. Ma il report è meno chiaro sulla parte della moda.
Pur riferendosi a «segmenti premium e di lusso», quando si parla di brand in crescita ci si riferisce a marchi sportswear decisamente più accessibili dei grandi brand di lusso europei. La stessa lettura del report porta a intendere che parlare di “crisi dei consumi” in Cina è sbagliato ma che la crisi per i brand di lusso è reale, dato che le vendite interne al paese sono scese. È chiaro che anche i consumatori più abbienti hanno capito che comprare all’estero, come in Giappone o in Europa, sfruttando la convenienza dei cambi monetari è allettante. Come ci racconta la manager, però, «il governo cinese non gradisce molto che i cinesi spendano le loro ricchezze all'estero. Ecco perché facilita la zona franca di Hainan. E ci sono alcuni casi in cui la dogana di Shenzhen tassa pesantemente gli articoli di lusso portati in Cina. Se un giorno il governo cinese dovesse implementare una severa politica di dazi doganali, potrebbe ostacolare gli acquisti all'estero, riportando il consumo di lusso all'interno della Cina».
La complessa questione dei dazi
China says they are ready for ‘any type of war’ with the U.S. following Trump’s tariffs:
— Pop Base (@PopBase) March 5, 2025
“If war is what the US wants, be it a tariff war, a trade war or any other type of war, we're ready to fight till the end” pic.twitter.com/058UhwPyc8
Trump ha annunciato lo scorso 27 febbraio l’introduzione di un ulteriore dazio del 10% sulle importazioni cinesi, entrato in vigore il 4 marzo, che si è aggiunto al dazio del 10% già imposto il 4 febbraio. Questa nuova tariffa ha spinto numerose aziende della grande distribuzione ma anche, come dice JingDaily, un brand come Steve Madden a rivedere le proprie strategie di prezzo, supply chain strategie distributive per rimanere competitivi sul mercato. Steve Madden, citato dal magazine perché è uno dei brand più esposti ai dazi a data la sua forte dipendenza dalla produzione cinese, ha annunciato un aumento selettivo dei prezzi per compensare i costi aggiuntivi. Il CEO Edward Rosenfeld ha dichiarato, durante la chiamata sugli utili del quarto trimestre, che l’azienda aumenterà i prezzi laddove possibile, a partire dall’autunno. Nel tentativo di ridurre la sua dipendenza dalla Cina, Steve Madden ha già diminuito la percentuale di beni importati dal Paese asiatico, passando dal 71% del novembre scorso al 58%, con l’obiettivo di arrivare al 40% entro la fine dell’anno. Cosa notevole però è che il brand prevede comunque una crescita del fatturato tra il 17% e il 19% su base annua, sempre che l’acquisizione di Kurt Geiger venga completata a maggio. La questione è complessa: se la stoffa viene prodotta e tagliata in Cina ma assemblata in Italia, le tariffe cambiano; ma cambiano anche se succede il contrario o se, ad esempio, il prodotto viene prodotto in un paese terzo ma assemblato in Cina. Secondo NPR circa il 32% di tutti i brand producono in Cina mentre solo il 3% di tutto l’abbigliamento mondiale è prodotto in America.
Le prime vittime della trade war, però, sembrano al momento essere Shein e Temu, che finora hanno beneficiato dell’esenzione de minimis (una norma che consente di importare negli Stati Uniti merci di valore inferiore agli 800 dollari senza dover pagare dazi) e che adesso potrebbero vedere messo in crisi il proprio modello. Sebbene Trump abbia inizialmente firmato un ordine esecutivo per eliminare questa esenzione a febbraio, salvo poi ritirarlo, il governo degli Stati Uniti prevede di abolirla definitivamente non appena sarà in grado di elaborare e riscuotere rapidamente le tariffe doganali. Per ovviare a questa situazione, Temu ha iniziato a indirizzare i consumatori statunitensi verso prodotti già presenti nei magazzini americani, mentre Shein ha aperto centri di distribuzione negli Stati Uniti e un ufficio a Seattle negli ultimi anni che, nel caso di un prolungamento effettivo di questi dazi, risulterà particolarmente utili. La Cina però non rimane a guardare e ha imposto dazi sulle merci statunitensi, inclusi petrolio grezzo, gas naturale liquefatto e macchinari agricoli. Ha inoltre promesso ulteriori contromisure in risposta alla nuova tariffa aggiuntiva del 10% sulle importazioni cinesi. Un portavoce del Ministero del Commercio cinese ha dichiarato che, se gli Stati Uniti persisteranno in questa direzione, la Cina adotterà tutte le contromisure necessarie per difendere i propri interessi legittimi. E le rappresaglie sono già cominciate: PVH, che possiede Calvin Klein e Tommy Hilfiger, ad esempio, è stata inserita nella "lista delle entità inaffidabili" – la prima volta che un’azienda che si occupa di brand di consumo finisce nella lista, esponendola a multe e sanzioni.
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La situazione è poco chiara per tutti: i dazi sono stati attuati, poi rimandati, poi rivisti. «Per le aziende cinesi si tratterà di un gioco di sopravvivenza, poiché i loro profitti ne risentiranno», ha dichiarato alla CNBC Edwin Tan, direttore generale della società di logistica globale Asian Tigers China. Dato che se anche un’azienda cinese decidesse di spostare la produzione su un altro paese per aggirare i dazi (strategia detta “China+1”) anche il nuovo paese potrebbe essere soggetto senza preavviso a nuove tariffe. Molti clienti americani hanno già chiesto ai fornitori cinesi di tagliare i costi o veder cancellati i loro ordini – le implicazioni per il tessuto manifatturiero cinese, le aziende locali potrebbero essere vaste anche se l’economia del paese non ne sarebbe eccessivamente scalfita. In attesa dell’incontro che, si dice, verrà programmato fra Trump e Xi Jinping il mese prossimo, la prospettiva di una trade war potrebbe far crescere di molto i costi delle materie prime e dei prodotti del settore della moda, con effetti che si faranno sentire non solo negli Stati Uniti, ma anche in altri mercati globali che dipendono dalle esportazioni cinesi. La Cina è il principale fornitore di abbigliamento per il mercato statunitense e internazionale e l’aumento dei dazi porterà inevitabilmente a un incremento dei prezzi per i consumatori in molte regioni del mondo. Secondo la United States Fashion Industry Association (USFIA), le tariffe potrebbero far salire i prezzi al dettaglio fino al 32%, influenzando la domanda e i modelli di consumo in tutto il mondo. Secondo le analisi di settore, il valore complessivo delle importazioni di abbigliamento dalla Cina negli Stati Uniti ammontava a circa 30 miliardi di dollari nel 2024, cifra che potrebbe subire una contrazione del 15-20% a causa delle nuove tariffe. Per tamponare le perdite, alcuni brand stanno già diversificando le proprie fonti di produzione, spostandosi verso paesi del Sud-Est asiatico come Vietnam, Bangladesh e India. Il fatto, però, è che queste nazioni non hanno ancora sviluppato la stessa capacità produttiva della Cina, il che potrebbe portare a ritardi e costi di produzione più elevati, con conseguenze per le catene di fornitura globali, comprese quelle europee. In questo momento, le esportazioni tessili dalla Cina rappresentano il 38% del totale mondiale – spostare la produzione influenzerà molto sia la qualità che i costi di produzione.
Il portavoce del Ministero degli Esteri cinese, Lin Jiang, ha dichiarato che Pechino è pronta a combattere su ogni fronte, sia esso economico o commerciale, se gli Stati Uniti continueranno su questa strada. Ma rispetto al 2018, quando Trump avviò la sua prima guerra commerciale, le dinamiche economiche di tutto il mondo erano diverse. Come spiega Al Jazeera, oggi USA e Cina hanno progressivamente ridotto la loro interdipendenza, mitigando l’impatto diretto delle tariffe imposte da entrambe le parti. Secondo Christopher Beddor, vicedirettore della ricerca sulla Cina presso Gavekal Dragonomics, le nuove tariffe rappresentano sì una sfida per l’economia cinese, ma sono molto più basse del tasso del 60% minacciato da Trump durante la sua campagna elettorale. La quota della Cina nel commercio totale degli Stati Uniti, misurata come somma delle esportazioni e importazioni, è scesa dal 15,7% del 2018 al 10,9% del 2024, mentre la quota degli Stati Uniti nel commercio totale cinese è diminuita dal 13,7% all’11,2% nello stesso periodo. Carsten Holz, esperto di economia cinese presso l’Università di Scienza e Tecnologia di Hong Kong, ha messo molto in chiaro le cose ad Al Jazeera: «Anche l'effetto di un divieto totale di Trump sulle importazioni dalla Cina - difficilmente realistico in un'epoca in cui, ad esempio, la maggior parte degli iPhone è prodotta in Cina - potrebbe non incidere più di una frazione di punto percentuale sul PIL cinese».