
Angeli e punk nella collezione FW25 di Undercover
Citazione e autocitazione per una collezione personale ma forse difficile da capire
05 Marzo 2025
Tute Champions con scarpe decolleté ricoperte da una stampa floreale, piumini e fleece simil-Patagonia alternate a giacche punk decorate di spille e gonne blu di frange metalizzate come pom-pom. Abiti decorati da farfalle e incrostati di bottoni di madreperla con piccole ali d’angelo scolpite sulla schiena che sfilano a fianco di bomber militari e giacche rappezzate e ricoperte di ogni sorta di chincaglieria, blazer e gonne con stampe di farfalle, scialli avvolti in vita come cinture. Basta questa breve lista per capire che la collezione FW25 di Undercover presentata ieri sulle note di Nina Simone alla Salle Wagram di Parigi era una mescolanza, spesso contradditoria, sicuramente frastagliata e irregolare, di stili e suggestioni. E c’era un motivo: lo show di ieri era difficile da capire e metabolizzare perché era un omaggio di Jun Takahashi alla propria collezione preferita, la FW04, intitolata “but beautiful…part parasitic, part stuffed” che combinava da un lato ispirazioni riprese direttamente dal guardaroba new wave di Patti Smith e dall’altro le suggestioni stilistiche di una scultrice tessile di nome Anne-Valerie Dupond che crea figurine di tessuto rappezzate ad arte come il mostro di Frankestein e che oscillano tra l’ironico e il seriamente inquietante. Chi volesse un assaggio dello stile di Dupond può osservare le curiose scarpe “scolpite” apparse ai piedi degli ultimi look, quelli da sera, che erano anche i più belli e spettacolari – ma in generale si può capire come mai lo show sia parso duro da intendere, dato che univa un certo grado (sano) di autoreferenzialità a citazioni già di per sé oscure con il solito comprensibile tocco commerciale per un risultato finale molto coerente con sé stesso e con il brand ma anche poco intuitivo, qualcuno direbbe contorto. Ma forse questa era l’idea.
Takahashi è uno di quei designer che ama il look caotico e che non sembra eccessivamente interessato ad aderire a certi trend – in una sua collezione possono convivere pigiami, sportswear degno del più pittoresco rapper e completi sartoriali di lana grigia. E anche se sicuramente alcuni di questi elementi possono lasciare perplessa un’audience ubriaca o delle influenze di Demna, di Margiela, di Prada o di quelle di Phoebe Philo (senza dubbio un full look di hoodie e pantaloni della tuta con logo a vista è un po’ passè) rimane vero che lo zeitgest che Takahashi ha reinterpretato per questo show possiede un proprio fascino. Impossibile non vedere, nel lato più “da giorno” della collezione, un'interessante e aspra declinazione del boho-chic che sta lentamente tornando nella cultura generale. La maniera in cui queste suggestioni sono articolate però, con una forte componente di wabi-sabi, con quell’ispirazione così anarchica e quella tensione fra i poli opposti dello sportswear crudemente moderno e del decoro barocco possiede una propria modernità. In un mondo di designer molto concentrati sulla pulizia e fluidità dei look, Undercover ci mostra che l’inesattezza e il caos hanno un proprio valore e che, in sostanza, il punk non è morto. E il tutto senza voli concettuali che altrove sarebbero astrusi: la divisa della vita quotidiana che Takahashi concepisce è sicuramente capricciosa e per certi versi bizzarra (il letterale motto del brand è “We make noise not clothes” dopotutto) ma è anche, prima di tutto pratica. Certo, non si esime da look più “artistici” con gli abiti da sera del finale, con i tutù fatti di piumini scolpiti ma proprio il fatto che fossero piumini e che i decori degli abiti fossero bottoni non fa che calarci nuovamente in una dimensione di quotidiano riassemblato.
Undercover è uno di quei brand che rappresenta un universo a sé. Pur essendosi espanso in aree molto commerciali della moda, come le molte collaborazioni con i brand della grande distribuzione o gli abiti più immediatamente logati, il brand rimane una realtà deliziosamente intellettuale – i migliori abiti che produce hanno sempre qualcosa di fondamentalmente strano e questo è il loro bello. Tutto questo universo, non certo esente dalle contraddizioni che abbiamo visto, è subordinato ai gusti e alle manie del suo creatore, Jun Takahashi, che oltre ad aver trasformato il proprio brand in un impero commerciale oltre che in una realtà parallela, è anche un pittore estremamente raffinato, un esperto di musica e musicista egli stesso oltre che il possessore di gusti molto specifici. Questi gusti specifici erano in mostra allo «Ora, a vent’anni dalla sua creazione, ho deciso di reinventare la mia migliore collezione personale concentrandomi sullo zeitgeist e su uno stile casual da adulto. Avevo 35 anni allora e ora ne ho 55 e sono entusiasta di vedere come questi vent’anni si riflettono sul design», ha scritto Takahashi nelle sue show notes. Quali altri designer sulla scena potevano dirsi entusiasti di presentare una collezione che è insieme omaggio e auto-omaggio? Quali altri storici direttori creativi possono o vogliono giocare ancora con questo gusto, sul piano artistico, senza cadere nella sterilità e nella ripetizione? La risposta è: troppo pochi.