A Guide to All Creative Directors

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Cosa è diventato lo streetwear nel 2025?

Lo abbiamo chiesto a cinque insider della scena

Cosa è diventato lo streetwear nel 2025? Lo abbiamo chiesto a cinque insider della scena

Se dovessimo pensare alla prima associazione che fa il nostro cervello sentendo la parola “streetwear” probabilmente ci verrebbero in mente una hoodie e un paio di sneaker. L’associazione non sarebbe sbagliata – ma durante il boom dello streetwear di dieci anni fa la natura di cosa rappresenti questo termine è diventata indubbiamente più sfaccettata. Parlando della nascita di Stussy su Complex, nel remoto 2012, uno dei designer storici del brand, Nick Bowler, aveva detto: «Se si pensa ad altre culture giovanili: il surf, lo skate, lo snowboard e si parla di streetwear... è un po' quello che si indossa per strada, quando non si pratica il proprio sport». E sempre nello stesso articolo, dunque più di un decennio fa, il DJ Jules Gayton notava che la parola aveva assunto una «cattiva connotazione» per la maniera in cui certi «corny brands» se n’erano appropriati. Nell’anno di cui parliamo, tra parentesi, Off-White non era nemmeno stato ancora fondato ma era in procinto di nascere. Ad ogni modo, quando Virgil Abloh si affacciò come un gigante sulla cultura della moda del decennio, l’idea di cosa fosse lo streetwear venne formandosi ma non definendosi. Parlandone una volta a Elle, Virgil stesso disse che lo streetwear era nato come «una specie di mentalità»: negli anni ’90 tutto era nato con gli skater che personalizzavano magliette col nome della propria crew, che nel decennio successivo la cultura skate aveva prodotto  il «vero e proprio streetwear» con brand come Supreme e Alife e creativi come Futura per poi dare largo a un «movimento post-streetwear» che era anch’esso una mentalità vera e propria, che sovvertiva la gerarchia della moda consentendo a ciò che stava tradizionalmente in basso di risalire verso l’alto: «I trend scorrono dalla strada verso l’alto. Il lusso non ha più la stessa presa sui consumatori». Ma in generale la profonda intuizione di Abloh, che venne fraintesa o comunque travisata in seguito, era che il futuro della moda non avrebbe riguardato abiti fragili, preziosi, intellettualmente pretenziosi o comunque formali ma abiti che, per certi, versi, non si indossavano con attenzione o pretensione – abiti normali di tutti i giorni da indossare, appunto, per strada. 

@nssmagazine Exactly two years ago, Virgil Abloh passed away—a designer who left a distinct mark on contemporary fashion and contributed to redefining the concept of creativity. To honor Virgil, we have extracted a clip from a lecture he gave at the Rhode Island School of Design, where his vision and attitude in his craft and life in general shine through clearly. Long Live Virgil. #virgil #virgilabloh #lecture #interview #creativity #lifelessons #inspiration #fashion #art #perfectionism QKThr - Aphex Twin

L’intuizione di Abloh fu profetica: ci troviamo dopo tutto in un mondo in cui miliardari e milionari hanno sostituito i loro completi doppiopetto con magliette ricoperte di grafiche, collane d’oro e acconciature da frescone – individui ultraquarantenni con conti in banca simili al PIL di una piccola nazione allergici a un completo di sartoria come potrebbe esserlo qualunque spacciatore di periferia. Ma a quattro anni dalla sua scomparsa prematura e a sei anni dalla famosa intervista in cui disse che lo streetwear sarebbe morto di lì a poco (come poi accadde, ricordate come si riemerse dal lockdown in pigiama prima e ossessionati dal quiet luxury poi?) il pubblico della moda deve ancora confrontarsi con la fumosa entità che è lo streetwear: i brand di moda producono e vendono sneaker di culto (Prada con le sue Collapse e Miu Miu con la sua collaborazione con New Balance) mentre le Puma Speedcat sono la nuova scarpa di culto di una generazione e brand come Loewe o Balenciaga vendono felpe logate a palate. Lo stesso Pharrell da Louis Vuitton ha raccolto la filosofia del readymade di Abloh e il suo vibe generale creando uno streetwear di lusso che non è fatto di semplici felpe e sneaker ma riguarda, come si diceva prima, versioni elevate di design già popolarissimi come la giacca Detroit di Carhartt WIP – ciò  che Adrian Bianco di Sabukaru definisce «una specie di streetwear». 

La situazione è di ambiguità. Nel passato, ad esempio, per il content creator Mark Boutillier «era più importante che la t-shirt grafica si abbinasse alle sneaker che altro. Ora, nel 2025, i confini sono molto più sfumati. Sembra che molti marchi di alta moda vogliano essere marchi di streetwear e che i marchi di streetwear vogliano essere marchi di alta moda». E se oggi, sempre secondo Mr. Bianco, la parola streetwear «ha trasceso il suo significato originale» diventando «un lascito culturale e un business», il co-founder del brand danese Les Deux, Matias H. Jensen, ha una visione più filosofica: «Lo streetwear è ed è sempre stato cultura da indossare, qualcosa che va oltre la semplice tendenza e diventa un modo di esprimersi. Nell'ultimo decennio il genere è cambiato molto, ma in fondo credo ancora che sia un modo per dire alla gente chi sei senza aprire bocca. Oggi credo che definisca tutto ciò che si rifà alle radici della controcultura e che rientra in quella categoria, dalle maglie in nylon brocore ai jeans da skater fino al gorpcore funzionale. In poche parole, per me lo streetwear è autenticità». Per Odunayo Ojo, giornalista indipendente di Londra più noto nei circoli come Fashion Roadman e founder di The Fashion Archive, «Virgil Abloh è probabilmente uno dei pochi stilisti che ha capito la vera essenza di ciò che dovrebbe essere lo streetwear ed è per questo che ha costruito una comunità così forte intorno ai suoi capi».

Tra gli insider che abbiamo intervistato per cercare in comune di fare il punto su una semantica dello streetwear oggi è emersa una tripla associazione di concetti: funzionalità, autenticità, portabilità. «Quando ero più giovane, pensavo allo streetwear come all'abbigliamento associato a una comunità o a una sottocultura», dice Odunayo Ojo. «Oggi associo lo streetwear a categorie di prodotti che comprendono capi facili da realizzare come felpe, pantaloni della tuta, hoodies e altri indumenti che tipicamente associamo all'abbigliamento da lavoro». Abiti che, oltre alla loro “facilità”, sono anche privi di quella sostenutezza che oggi invece associamo stranamente alla working class dei droni da ufficio, al mondo sempre più respingente della politica e dei burocrati e di cui la moda si è riappropriata con l’estetica officecore, che carica questi significanti di mediocrità di un’impensata sensualità. Ad ogni modo, proprio la questione della facilità ci porta su un quarto concetto “fondante” della definizione di streetwear su cui stiamo indagando e che è emerso parlando con Bruno Casanovas, co-founder del moderno brand Nude Project, e cioè la democraticità. « Per me streetwear significa “per la gente”, cioè per la comunità» ci ha detto Salinas. «Direi che lo streetwear è una reinterpretazione dell'Alta Moda portata nelle strade e nella vita di tutti i giorni. Streetwear, per me, significa poter trasmettere ogni giorno un messaggio che ti rappresenta, in questo caso attraverso la moda. Nel 2025, questo stile non è più solo una sottocultura o una tendenza passeggera, ma è diventato un fenomeno globale in continua evoluzione. Oggi non si tratta solo di abbigliamento comodo e casual, ma di uno stile che riesce a coniugare esclusività e autenticità allo stesso tempo».

Ovviamente questo quadro è positivo sul piano teorico ma meno su quello pratico. Non è un caso se già nel 2019 si parlava di una “bolla streetwear” in riferimento al fatto che il business dello streetwear, entrato nel lessico commerciale della moda di lussa, superò in volume di margini e guadagni il fondamentale valore intrinseco dei prodotti stessi creando una crescente dissonanza agli occhi del pubblico della moda che si tradusse in insofferenza verso questo tipo di stile la quale a sua volta rimbalzò verso il quiet luxury, che altro non è stato se non il bisogno dei consumatori di un ritorno al valore materiale dei prodotti, un ritorno alla sostanza. «Credo che il motivo principale per cui molti marchi hanno adottato lo “streetwear” come estetica sia la facilità di produzione dei capi e gli altissimi margini di profitto» ha detto Odunayo Ojo, «perché non c'è bisogno di molto sviluppo per realizzare semplici hoodie da vendere a 850 dollari. Marchi come Balenciaga, Dior e Valentino hanno anche dimostrato che le sneaker e gli stivali vendono più di qualsiasi altra categoria di scarpe per i brand di lusso perché tutti possono indossarli. Non tutti possono indossare tacchi o mocassini, ma tutti possono indossare sneaker». Anche per Casanovas la lussificazione dello streetwear non era destinata a durare: «Non importa quanto si spinga verso il lusso o quante nuove collaborazioni spuntino fuori: se un marchio non si connette con le persone in modo reale, perde la sua essenza. Lo streetwear oggi è in continua evoluzione. Il lusso si sta tuffando nell'abbigliamento sportivo per raggiungere un pubblico più ampio, mentre i marchi di streetwear collaborano con le icone per consolidare il loro posto nei mercati di nicchia. Ma alla base dello streetwear c'è sempre stata la connessione, l'appartenenza e la concretezza. Non si tratta di loghi o di cartellini dei prezzi assurdi».

@freesami_ What do yall think? #fashiontiktok #supreme #nycfashion #archivefashion #subversivebasics #fypシ original sound - 4lhardrock

Ed è forse per questo che oggi la categoria dello streetwear sembra essere uscita dai confini della subcultura e ha ampliato il suo raggio semantico, inglobando anche uno stile più “classico” che definire precisamente è difficile. Prendiamo ad esempio Aimè Leon Dore, forse non un esempio molto corrente ma comunque valido, e la rivoluzione che Teddy Santis ha portato nel layering quotidiano mescolando il classico cappotto alla tuta, il blazer al cappellino da baseball, il maglione di lana a coste con la sneaker da basket. Ma gli esempi sono molti – tutti hanno in comune un certo livello di aspirazionalità simboleggiato dagli elementi “classici” che però scendono al livello metaforico della strada: non è uno streetwear imborghesito ma semplicemente maturo. L’ossessione per tute e sneaker, finito il momento di rottura culturale, non era più aspirazionale perché solo un lifestyle può esserlo – la connessione col pubblico, esauritasi la novità della cultura hype, doveva muoversi attraverso il sogno o la manifestazione di una vita che pur conservando l’originario senso di facilità e libertà fosse anche meno banalmente quotidiana. Fu in quel momento che alla sneaker si sostituì il semplice-ma-chic mocassino. «I brand di streetwear sono diventati più che semplici aziende che producono abiti» ci dice Mathias H. Jensen. «Le persone vogliono storie, valori, appartenenza ed espressione di sé. Non comprano più solo una felpa, ma uno stile di vita. Il settore si è trasformato da una scelta di moda a una scelta di vita» prosegue, «il che significa che credo che l'anima dello streetwear si possa trovare in qualsiasi marchio a cui si è legati come individui. Che si tratti di un marchio di lusso, di uno dei pionieri o di un marchio più accessibile, si crede nei marchi con cui si entra in contatto. [...] La bellezza del genere è che la sua storia di anticonformismo scoraggia in una certa misura la categorizzazione in lusso o non lusso. Dipende da quale parte si è in sintonia. È tutto per tutti».

Per Casanovas, «i brand devono offrire qualcosa di più di semplici capi di abbigliamento; devono comunicare un messaggio chiaro e valori che risuonino con le persone. Lo streetwear è diventato una piattaforma per raccontare storie da più punti di vista». E questa nozione di streetwear come piattaforma è alla base, da un lato, di un gran numero di altre iniziative che oggi, nel gergo commerciale e degli editor, è diventato semplice “sportswear” ovvero abbigliamento specializzato per discipline con una dimensione comunitaria; dall’altro di brand che creano community enormi partendo non da una disciplina atletica o da un hobby ma da un senso di appartenenza trasversale, come nel moderno caso di Corteiz, brand popolarissimo ma che è riuscito a restare in una sua nicchia del mercato e del pubblico. «Il concetto di "performance streetwear running club", almeno per come lo vedo io, è una sorta di ritorno alla community», ci ha detto Adrian Bianco. «È una cosa che avevamo già visto anni fa, con realtà come il Patta Running Crew o, ancora oggi, con AFE a Tokyo o Gyakusou ai suoi tempi. La gente tende a pensare che sia qualcosa di nuovo, ma in realtà è più un “di nuovo, ma con una prospettiva diversa”. I grandi marchi, invece, devono imparare di nuovo a investire nelle comunità. E qui torniamo all’esempio dei running club: Nike, che dominava il mercato del running e delle sneakers, ha spostato tutto sul direct-to-consumer, dimenticandosi delle comunità e smettendo di distribuire scarpe ai negozi locali. Questo ha permesso ai piccoli brand di running di inserirsi proprio in quelle comunità, creando un legame più diretto e vincendo così la partita. I marchi più agili e piccoli si muovono velocemente, mentre quelli grandi sono come dinosauri, lenti a reagire. Ma, ancora una volta, è tutto ciclico». Per Boutillier invece «i brand di streetwear che stanno dominando o emergendo sono quelli che stanno conquistando Internet. Ci sono brand che vendono milioni di dollari di merce attraverso TikTok e di cui non si parla quasi mai. Fugazi è nato sui social media e ora ha un negozio all'angolo tra Orchard e Canal a New York».

I bilanci finali sullo stato dello streetwear oggi sono alterni. Da un lato abbiamo founder di brand e direttori creativi come Jansen o Casanovas che, ciascuno nell’ambito del proprio brand, sono riusciti a trovare un centro e una comunità. Nel caso di Jansen e di Les Deux si tratta, ad esempio, del «potere dello sport di unire le persone» che appaiono tanto nelle loro collezioni che nelle campagne e persino nei loro headquarter dove «abbiamo persino costruito un campo da basket. È qualcosa con cui ci ci identifichiamo davvero, e anche la nostra comunità lo fa». Per Casanovas invece «lo streetwear è ormai presente in quasi tutte le discipline creative: dalla musica all'arte digitale e al cinema. È diventato una piattaforma per raccontare storie da più punti di vista, e questo è qualcosa che ispira ogni collezione che creiamo a Nude Project». Più scettico nei confronti dello streetwear è Ojo che, vedendo da un lato il proliferare di una nuova scena coi suoi diversi filoni e dall’altro il successo dello streetwear di lusso logato, si ritiene «piuttosto confuso su cosa rappresenti effettivamente lo streetwear nel 2025. Lo streetwear è diventato meno legato alla comunità e alla sottocultura e quasi completamente al commercio. Non credo che lo streetwear sia più associato all'accessibilità». 

Anche per Boutillier «lo streetwear si trova in un momento un po' strano. Il mercato è estremamente saturo, i riferimenti vengono rigurgitati in continuazione e la velocità con cui i marchi sfornano nuovi prodotti e collaborazioni ha un sapore molto transazionale». Mentre Adrian Bianco mantiene invece una posizione di ottimistico scetticismo: «Ci troviamo ancora allo stesso punto, solo con più possibilità. Non c’è molto di entusiasmante al momento, eppure sono ancora tutti lì. Anni fa i giovani brand facevano principalmente magliette; oggi i ragazzi possono lanciare marchi di sneaker o addirittura giacche in pelle. Le uniche vere limitazioni sono i soldi che hai o che riesci a mettere insieme per iniziare. Credo che la cosa più importante sia avere persone valide all'interno dei brand, persone capaci di mantenere un equilibrio tra la dimensione aziendale e quella culturale. Bisogna lavorare duramente, pensare liberamente, essere un po' "stupidi", ma saper bilanciare la cultura e la parte commerciale. Solo così si può costruire qualcosa di grande».