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Il turismo al Sud porta davvero ricchezza?

Intuitivamente parrebbe di sì, ma uno studio relativo al Salento ha dimostrato il contrario

Il turismo al Sud porta davvero ricchezza? Intuitivamente parrebbe di sì, ma uno studio relativo al Salento ha dimostrato il contrario

Dopo il lockdown, complice un movimento di “ritorno alle origini” che ha portato in auge brand come Jacquemus e pagine come @vita________lenta, l’attenzione dei turisti di tutto il mondo si è focalizzata su diverse regioni marittime italiane come Puglia, Liguria, Campania e Sicilia comportando un gran numero di afflussi che, specialmente quest’estate, hanno messo spesso a dura prova le infrastrutture e le industrie ricettive di tutta Italia. Nell’opinione pubblica “turismo” è diventato sinonimo di “soldi”: i turisti alimentano l’economia, riempiono ristoranti e negozi, comprano prodotti tipici e, come spesso si dice, fanno girare l’economia. Il che ha spesso portato a una “rinfunzionalizzazione” di numerose regioni che, da città, sono diventate località turistiche la cui economia diventa sempre più dipendente da servizi di natura turistica mentre vengono meno le aziende vere e proprie. In questi giorni però, uno studio economico e un exposè giornalistico, hanno evidenziato come la credenza che il turismo da solo possa trainare l’economia di una regione intera sia sostanzialmente falsa. 

Il turismo che ha impoverito il Salento

Gli autori de I limiti dello sviluppo turistico nel Mezzogiorno, rapporto che esamina la crescita economica della provincia di Lecce, ad esempio, hanno concluso che «il turismo non genera crescita e che è semmai lo sviluppo locale a essere un prius rispetto all’aumento degli afflussi. Il settore è anche caratterizzato da stagionalità e retribuzioni molto basse. Il passaggio dalla produzione di tabacco alla monocultura dell’olio al turismo conferma, tuttavia, per questa area la scarsa propensione all’accumulazione di capitale e il suo essere zona periferica nell’ambito dello sviluppo capitalistico globale». Insomma, si stava meglio quando il territorio era effettivamente messo a frutto e non trasformato in una sorta di luna park dell’Italia rurale. Tanto più che «gli afflussi turistici in loco costituiscono un afflusso di liquidità di breve periodo e stagionale e creano una forte dipendenza dai mercati esteri o nazionali. Ciò sia con riferimento alla volatilità dei redditi dei potenziali turisti, sia con riferimento alla mutevolezza delle preferenze. […] In più, si tratta prevalentemente di un turismo povero, che solo in rare occasioni intercetta visitatori con redditi elevati. Nella provincia di Lecce, al 2022, esistono solo 12 strutture alberghiere a 5 stelle (su un totale di 3.122 hotel)». 

Senza contare come il turismo fai-da-te degli AirBnB elimina l’esigenza di sviluppare servizi dal più alto valore aggiunto, riducendo la domanda di operai specializzati che dunque emigrano e facendo calare la produttività della regione. Nello studio si legge che «la crescita del settore turistico è avvenuta di pari passo con la riduzione dell’incidenza dell’industria manifatturiera nella regione» ma soprattutto che questa stagnazione economica dovuta all’assuefazione dai facili guadagni derivanti dall’industria del turismo «contribuisce ad accrescere le diseguaglianze distributive […] per il tramite della gestione dei flussi in arrivo da parte di B&B, di proprietari di strutture di accoglienza, di svago e di ristorazione di proprietà di famiglie ricche, che di turismo si arricchiscono». E persino i posti di lavoro che il turismo crea rappresentano una sorta di illusione dato che «l’ampia disponibilità in loco di forza-lavoro giovane dipende dall’elevata disoccupazione, a sua volta causata da una bassa domanda (sia interna, sia estera), molto dipendente dal sostanziale venir meno degli sbocchi occupazionali del pubblico impiego». 

Il problema del lavoro povero

@chamatteini Annunci di lavoro di m***a pt 225 Poi si lamentano che non riescono a trovare personale #lavoro #sfruttamento #giornalismo #imparacontiktok #annuncidilavoro #turismo #ristorazione #napoli suono originale - Charlotte Matteini

Numerose sono poi le lamentele, al Sud Italia, sulla qualità dei servizi offerti, sulla capacità degli operatori turistici di parlare in inglese o anche solo servire ai tavoli con professionalità. Uno scadimento di qualità che non corrisponde ai prezzi che invece volano verso l'altro. Il che è dovuto al fatto che non si cercano più professionisti più "seri" anche per quanto riguarda il retail e la ristorazione ma si punta su stagionali poco preparati e spesso sfruttati. In una recente inchiesta de Il Fatto Quotidiano relativa al lavoro precario a Milano, Charlotte Matteini ha corroborato con evidenze quanto molti forse già percepivano – ovvero che si basa sulla logica dello sfruttamento. I lavori per cui non si trovano lavoratori qualificati, quelli nella ristorazione e nel retail, sono incidentalmente anche il tipo di lavori temporanei che abbondano nelle località turistiche, e che rappresentano anche «i due settori che presentano la maggior incidenza di irregolarità» e dunque vedono camerieri e baristi e commessi, ma anche addetti alle pulizie e il personale di stabilimenti balneari non solo sottopagati ma anche soggetti a orari che vanno molto oltre le ore previste da contratti part-time o regolari. L'effetto è che i veri professionisti vanno via, e al loro posto arrivano impiegati che resteranno pochissimo e magari faranno pure un lavoro peggiore. Nella ristorazione, secondo il Fatto, si arriva un livello di lavoro irregolare del 76% che l’articolo parrebbe suggerire essere un malcostume del paese in cui «è diffusa l’idea malsana che un giovane debba accettare qualsiasi condizione proposta, una sorta di distorsione in cui la gavetta finisce per somigliare un moderno schiavismo».

Tesi che sottolinea come, ad esempio, il business del lavoro stagionale che spesso dà l’impressione di creare impiego e opportunità per i giovani, alla lunga, finisce solo per abbassare la qualità dei servizi offerti e di risultare in un modello di crescita a così corto raggio da determinare effettivamente una decrescita. In riviera romagnola, secondo il Corriere «8 addetti su 10 superano le 60 ore a settimana e ben il 40% non gode di straordinari, dovendosi accontentare nella migliore delle ipotesi di fuori busta esentasse a meno di 7 euro l’ora». Mentre il segretario Cgil di Massa Carrara, Nicola del Vecchio, ha detto a La Nazione: «L’inflazione erode i salari, il manifatturiero è in crisi nel contesto regionale […]. Per quando riguarda il settore turistico poi non si parli solo di mancanza di professionalità, perché spesso siamo di fronte a condizioni di lavoro inadeguate alle aspettative e non rispettose delle prerogative contrattuali». Dati che tutti, se non sanno, almeno possono confermare per esperienze di prima o seconda mano. La vera domanda è: cosa ci vuole per rompere il circolo vizioso?