
Perché non si parla mai dei giovani che restano in Italia? È così facile fare rage-bait sulla questione della fuga dei cervelli
Will ha pubblicato recentemente un post su Instagram intitolato «L’Italia continua ad essere un Paese in cui si va via». Il contenuto è abbastanza autoesplicativo, la solita infografica che sottolineava come in un report di Italiani nel Mondo ci sono stati 1,6 milioni di italiani che negli ultimi 20 anni hanno scelto di migrare e di questi ne sono tornati solo 827 milioni.
Altro giro, altro corsa insomma, dato che sul tema della fuga dei cervelli sono ormai decenni che i media sottolineano in maniera ossessiva come la situazione continui a peggiorare e come gli under 30 italiani preferirebbero sbarcare in lande isolate che restare a casa. Il problema principale del discorso di Will, come in quello pubblico, è che il claim del fenomeno migratorio italiano è essenzialmente esposto come la fuga dei cervelli = tutti scappano. Una narrativa che ha una bella presa mediatica, ma che cancella tutto il resto, anzi, tutti gli altri.
I giovani italiani se ne vanno, ma rientrano anche
@claudiasuraceespana Il mio miglior viaggio é stato a Madrid
Let Down - reavesaudios
La mobilità giovanile è più complessa di un flusso unidirezionale. Non è un esodo come spesso si pensa, ma è un ecosistema e quando si affronta il tema, nessuno cita mai i numeri relativi ai rientri. Secondo l’ultimo rapporto ISTAT sulle migrazioni internazionali, nel 2024 circa 53 mila italiani sono tornati a vivere nel Paese dopo un periodo all’estero, mentre nel biennio 2023-2024 si registrano oltre 270 mila espatri. Il saldo rimane negativo, certo, ma dimostra che non tutti i giovani che se ne vanno lo fanno in via definitiva. Nel quinquennio precedente, per esempio, nella fascia 25-34 anni si contano 192 mila espatri e 73 mila rientri, quindi quasi un giovane su tre sceglie di tornare dopo un’esperienza fuori.
C’è anche un altro segmento che sfugge completamente alle statistiche ufficiali: i giovani che hanno studiato all’estero senza trasferire la residenza e che quindi non compaiono né nei dati sugli espatri né in quelli sui rientri. Un gruppo numericamente difficile da quantificare, ma fortemente presente, soprattutto negli ultimi 10 anni. Lauree magistrali nel Regno Unito, master nei Paesi Bassi, programmi Erasmus trasformati in curriculum internazionale: percorsi che non vengono registrati da ISTAT perché non comportano una migrazione amministrativa e che quindi non appaiono nei numeri della fuga. Nondimeno fanno parte di una fetta di popolazione che raramente trova spazio nella narrazione mediatica, perché non si presta al panico morale del «non ci sono più giovani in Italia».
E gli italiani che restano in Italia?
Strano ma vero, eppure in questo dibattito la categoria meno menzionata è quella di tutti i giovani che in Italia ci nascono, ci crescono e ci rimangono. Forse perché non conviene, o forse perché c’è sempre un po’ quel velo (non troppo velato) di elitismo. Anche se nessuno lo dice apertamente, chi se ne va è un po’ considerato un eroe, la fuga dei cervelli è quella dei più intelligenti, di chi ce l’ha fatta; mentre chi resta viene considerato inferiore, parte di un capitale umano meno importante.
La realtà però è ben diversa: secondo l’ISTAT, ogni anno solo una minoranza dei giovani italiani emigra, parliamo di circa 150 mila espatri totali l’anno, di cui meno della metà è under 35. Nella fascia 25-34 anni, quella più mobile e più esposta alla narrativa della fuga, il rapporto tra chi parte e chi resta rimane estremamente sbilanciato: oltre il 95% dei giovani italiani vive stabilmente in Italia. È un dato enorme, ma nessuno lo cita mai perché non alimenta l’idea del Paese vuoto o abbandonato.
Lo stesso vale per gli studenti. Ogni anno, secondo le stime del MIUR, circa 36 mila ragazzi italiani vanno all’estero per studio, ma sono appena una frazione rispetto ai quasi 2,8 milioni di giovani iscritti nelle università italiane. E nonostante l’immaginario dell’Erasmus come trampolino di lancio verso l’espatrio definitivo, la stragrande maggioranza, secondo Eurydice e Almalaurea, rientra e rimane in Italia dopo la laurea, spesso per motivi familiari, economici o di radicamento territoriale.
Il diritto di non emigrare
Sempre io che penso alla facilità con cui la gente dica: bisogna andare all'estero per avere un futuro, come se cominciare da zero in un altro paese fosse facile. Devi trovare casa, lavoro, sapere la lingua, conoscere le leggi del paese, documenti certificazioni ecc...
— levodopa (@levodopa800) January 9, 2025
E allora la domanda vera diventa un’altra: perché parliamo sempre e solo di chi parte, e non di chi resta? Perché l’eroismo lo attribuiamo agli espatri, e mai a chi decide di costruire qualcosa qui, spesso in condizioni più difficili, più lente, più frustranti? Per chi cresce con una forte indole accademica, ma anche per chi entra subito nel mondo del lavoro, la cantilena è sempre la stessa: «sei sprecato per l’Italia, devi andare fuori». Quasi come se emigrare non fosse una possibilità fra molte, ma un dovere morale, un gesto necessario per l'autorealizzazione.
È qui che diventa necessario uno sguardo più profondo, che vada oltre la retorica binaria della fuga o del fallimento. Come ricorda il filosofo e professore Andrea Zhok nella sua Critica della ragione liberale, la nostra idea di individuo è spesso costruita su un presupposto sbagliato, quello dell’essere umano isolato, sradicato dal proprio contesto, libero di scegliere in astratto ciò che è meglio per sé. Ma, come sottolineavano già gli antropologi dell’American Anthropological Association criticando la concezione individualistica dei diritti nella Dichiarazione Universale, nessun individuo è realmente separabile dalle appartenenze culturali che lo formano. Parlare di libertà pura significa ignorare che ogni scelta è condizionata da radici, legami, reti sociali, condizioni materiali. Significa, in altre parole, imporre una visione del mondo che rispecchia soprattutto i valori occidentali e liberali, mentre la realtà umana è infinitamente più complessa.
Lo stesso vale per la retorica migratoria. Nel 2016 la rivista Studi Emigrazione intitolava un intero numero «Il diritto a non emigrare», ricordando come, in molte parti del mondo, emigrare non sia affatto una scelta ma una necessità: il risultato di economie che non offrono alternative, di governi che non investono nei propri giovani, di un’intera industria dell’immigrazione che trae profitto dallo spostamento forzato di persone. Applicare questa lente all’Italia significa riconoscere un principio fondamentale, il diritto a non emigrare è un diritto invisibile. Invisibile perché non fa notizia, invisibile perché non corrisponde al mito del successo, invisibile perché chi resta non incarna la narrativa di capitale umano esportabile. Ed è per questo che non si parla dei giovani che rimangono in Italia.














































